LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE
PER GLI ITALIANI?
Tutte le TESTIMONIANZE riportate sono tratte dal volume LE RAGIONI
DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201
pagine può essere richiesto al CENTRO
STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.
LE TESTIMONIANZE TRATTE DAL LIBRO E RIPORTATE NEL NOSTRO ARCHIVIO SONO
STATE NECESSARIAMENTE SUDDIVISE IN DUE PARTI.
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da LE RAGIONI DEI VINTI
TESTIMONIANZE
- Nessuno di noi chiede vendetta: tutti noi chiediamo che la giustizia
si manifesti attraverso la proclamazione delle verità storiche.
LEGENDA:
Alcuni testimoni hanno fatto nome e cognome dei
responsabili dei fatti oggetto di questo studio. I nominativi sono stati
sostituiti dal simbolo (* * ).
TESTIMONIANZE di:
Ing. Riccardo Barbieri Manodori
«Richiesto di fornire la mia testimonianza
sul sacrificio di mio fratello Leopoldo Barbieri, ritengo doveroso premettere
un pensiero riverente per tutti i Caduti reggiani dal 1943 al 1946, ricordati
nel volume édito a cura della Associazione Nazionale Famiglie Caduti
e Dispersi della R.S.I., del quale il volume scritto da Rossana Maseroli
Bertolotti rappresenta un opportuno e coraggioso arricchimento storico
e testimoniale.
Un pensiero particolare va a Francesco Cigarini,
presidente reggiano dell’Associazione, che ci è mancato nell’ottobre
del 1995, e di cui il 16 febbraio 1945 furono uccisi il padre, la madre,
il fratello maggiore ed il fratello minore; unica superstite la vecchia
nonna, pur gravemente ferita.
La mia premessa vuol significare come la memoria
dei nostri Morti rappresenti la nostra ricchezza interiore, un’eredità
che noi dobbiamo lasciare alle generazioni future, affinché all’Italia
odierna succeda nel tempo un’Italia dei Valori, una vera Patria. Quella
Patria per cui è caduto mio fratello Leopoldo, come sta scritto
nel diploma di laurea honoris causa rilasciatogli alla memoria il 3 febbraio
1953 dall’Università di Firenze, unico documento di pacificazione
a me noto che riconosce un valore anche al sacrificio dei nostri Caduti.
Leopoldo, il 9 ottobre 1943, apriva con me la Casa
del Fascio di Novellara. Nonostante la giovane età fu eletto Segretario
del Fascio di questo paese, a cui dedicò ogni attività, volta
specialmente alla pacificazione degli animi. Ne è prova la lettera
del febbraio ’44 inviata all’avvocato Franco Mariani, con la quale richiedeva
a gran voce che si evitasse la proposta del comando tedesco di trasferire
parte delle officine “Reggiane”, semidistrutte dai bombardamenti a tappeto
del 7 e 8 gennaio, nelle officine “Slanzi”, ubicate nel centro di Novellara,
all’ombra del Campanile, bersaglio facile per un bombardamento distruttivo.
Anche un libro scritto da partigiani novellaresi cita la lettera. Non credo
che il pericolo sia stato evitato solo grazie all’atteggiamento di mio
fratello: sta comunque di fatto che la proposta non ebbe seguito.
Nell’ottobre del ’44 Leopoldo fu “giubilato”, perché
era insorto contro la fuga a Soncino della Brigata Nera “Ferri” e perché
mal sopportava l’organizzazione militare delle Brigate stesse che avrebbero
dovuto avere l’unico scopo di armare i fascisti isolati, facile bersaglio
delle imboscate partigiane. Ricevette tuttavia il delicato incarico da
parte del Capo della Provincia di svolgere un’indagine sulle possibilità
di un accordo che evitasse un bagno di sangue alla fine della guerra. L’indagine
ebbe risultato del tutto negativo, come si poté verificare all’atto
della strage scientificamente preparata e realizzata con gelida determinazione
e ferocia.
Nonostante dunque la consapevolezza del futuro che
lo attendeva, il 20 aprile ’45 Leopoldo rispose al mio invito di unirsi
a noi, armati ed organizzati, nel ripiegamento, con un netto diniego: “Resterò
con i miei di Novellara: non voglio che mi si dia del vigliacco”.
Il 22 aprile venne catturato dopo una giornata trascorsa
quasi normalmente. Mi scrisse il funzionario del Municipio Gaddi: “La mattina
della domenica, quando già si sentiva lontano il rombo dei carri
armati, Leopoldo, all’apertura della biblioteca municipale, mi restituì
due volumi dei discorsi di Mussolini, poi si allontanò”. Verso mezzogiorno,
quando i tedeschi avevano già abbandonato Novellara, alla signora
Luppi che lo consigliava di andarsene, come già aveva fatto suo
marito, oppose un secco rifiuto: “Non ho nulla da temere: rimango”.
La sera venne catturato; non so ancora se da angloamericani
o da partigiani e poi rinchiuso nei locali della Rocca. Nel pomeriggio
del 23 aprile, poiché protestava la sua coscienza di aver agito
per la pacificazione degli animi, sostenendo che la gente gli voleva bene,
fu gettato alla mercé dei partigiani dal comandante della piazza,
colonnello Soragni. Il comandante partigiano Crotti mi ha personalmente
dichiarato, come già aveva fatto nell’intervista rilasciata a Massimo
Storchi dell’Istituto Storico della Resistenza, che la sua determinazione
di abbandonare ogni incarico politico e militare maturò proprio
assistendo agli insulti, alle percosse ed alle violenze subite da Leopoldo
in quel pomeriggio. La signora Antea Lombardini Bonazzi mi scrisse di averlo
visto, unico in piedi, sul camion che lo portava verso il suo destino.
Così si esprimeva poi don Sante Pignagnoli, prete partigiano: “Guardate
quel ragazzo, è come Cristo sulla strada del Calvario”.
La notte del 24 aprile fu portato a Fabbrico, alla
villa Guidotti, sede del comando partigiano, a disposizione del comandante
Silvio Terzi, che lo conosceva, essendogli stato a fianco come Commissario
Prefettizio del Comune di Fabbrico (Il Terzi passò poi nelle file
partigiane).
Alla signora Guidotti che gli aveva portato il Vangelo,
Leopoldo disse: “Hanno ucciso Gesù: crucifige. Tre giorni fa eravamo
in auge, ora ci massacrano… Si ripete la storia!”.
E’ evidente che Silvio Terzi, nel nome della passata
collaborazione ed amicizia, aveva intenzione di salvarlo. Infatti raccomandò
al partigiano Livio Vezzani, che me lo ha riferito, di non lasciarlo avvicinare
da nessuno. Purtroppo Terzi dovette allontanarsi, perché chiamato
a Reggio per fronteggiare i franchi tiratori. Leopoldo rimase prigioniero
qualche giorno. Probabilmente nella notte dal 27 al 28 aprile alcuni partigiani
di Novellara, approfittando dell’assenza del Terzi, lo prelevarono contro
la volontà del partigiano Dante Sabatini, addetto alla sua custodia.
Il Sabatini, sotto la minaccia di una pistola, dovette cedere. Leopoldo
fu caricato su un camioncino 103 FIAT.
Sul luogo dell’uccisione e quello del seppellimento
una ridda di voci e supposizioni. Vane le ricerche effettuate, vani i numerosi
esposti alla Questura, vano l’interessamento del Vescovo di Guastalla e
del capitano Vesce.
Chi sapeva taceva, chi sa ancora tace, o per
omertà, o per paura, o per colpevolezza.
Unico, chiuso nel suo dolore, il nonno Bernardo
non lasciò nulla di intentato, facendosi accompagnare sui luoghi
di ritrovamento dei cadaveri con un’auto pubblica su cui faceva issare
una bara, e portando sempre con sé un campione del vestito indossato
di Leopoldo. Con l’aiuto del bisturi, avvalendosi della sua esperienza
di chirurgo, cercava di riconoscere i resti ostacolato, in quest’opera
pietosa, dagli insulti della masnada, a stento trattenuta da due carabinieri.
Ogni volta la bara tornò vuota.
Leopoldo aveva a suo tempo scelto il nome da dare
alla piazza del suo amato paese, Novellara: piazza Unità d’Italia.»
Dott. Eolo Biagini, classe 1933. Già Sindaco di Carpineti
«Nel 1944-45 ero un bambino, ma qualche
ricordo l'ho anche io. Una mattina ero andato a servire messa, come sempre,
nella chiesetta di Onfiano, mio paese natale. Stavo tornando a casa, quando,
in località Signorana ho sentito uno sparo; corso a vedere cosa
succedeva, ho visto una scena che è rimasta ben incisa nella
mia memoria sensibile di bambino: un uomo riverso a terra, in un lago di
sangue; si trattava di una persona ben conosciuta; certo Claudio Caroli,
gestore di un piccolo negozio di alimentari. La moglie, Diva Lamberti,
gli teneva la testa e gridava disperata. Dal piccolo borgo - un pugno
di povere case - accorreva, intanto, gente; vicino al corpo insanguinato
due partigiani. Uno del paese mi ha gridato di andare di corsa a chiamare
il prete, don Geminiano Piagni, il quale è arrivato poco dopo per
dare al morente l'estrema unzione. Dopo di che mi ha trascinato via, accortosi
probabilmente del mio stato di choc. L'ucciso, credo, aveva aderito alla
R.S.I. iscrivendosi alla Guardia Nazionale Repubblicana; di fatto, era
sempre nella sua piccola bottega, affacciata sul polveroso viottolo (non
ancora asfaltato) che portava al paesino. La versione ufficiale data dai
partigiani è stata questa: mentre passava di lì (per puro
caso) ad un patriota è caduto il fucile; cadendo, è partito,
accidentalmente, un colpo, che ha raggiunto in pieno il Caroli uccidendolo;
la vox populi, invece, dava un'altra versione. Il fucile sarebbe davvero
caduto al patriota, ma da dietro la siepe il secondo avrebbe sparato al
Caroli. Certo non è stato, in ogni caso, un atto di grande coraggio...
vista la situazione! Il Caroli è stato poi sepolto nel piccolo cimitero
di Onfiano, dove una lapide, curiosa , porta scritto:
"Claudio Caroli, morto non volendo
per una disgrazia
di un fucile caduto a un partigiano"
L'italiano sconnesso e scorretto non riesce a nascondere
quello che appare tra le righe: non si poteva alludere, non si poteva
dire la verità; solo dietro ad uno strafalcione, l'attento occhio
del popolo avrebbe potuto capire il doppio senso... e la verità!
Per anni, anche dopo la fine della guerra, qui
da noi - e non solo - la gente ha dovuto fare finta di non sapere, di non
vedere, di non capire... La posta in gioco non era la sola tranquillità.
I montanari sono per loro natura arguti, attenti e furbi. Hanno capito
alla svelta che per salvare la pelle - ma troppo spesso non ci sono riusciti
- bisognava essere sordi, ciechi e muti. E' stato subito chiaro che ad
una dittatura se ne voleva sostituire un'altra... per fortuna, le elezioni
del 1948 hanno impedito che alla ventennale tragedia del fascismo subentrasse
la possibile tragedia del comunismo.»
Beatrice Bozza
«Ho conosciuto mio marito, Ettore Pelli, nel
1943; io ero una ragazzina, appena sedicenne, e mi sono innamorata subito
di lui: un bel ragazzo, allegro, spiritoso, intelligente. Capelli lunghi
(per allora), modo di fare coinvolgente, Ettore faceva di professione il
giornalista: dico meglio, era caricaturista in un giornale. In un primo
tempo nella "Tradotta", poi, dall'8 settembre 1943 al "Bismantova".
La sua famiglia era di sinistra: pensi che suo padre, pur essendo disoccupato,
non aveva voluto prendere la tessera del fascio; Ettore non era un fascista
tutto d'un pezzo; come tanti, per mangiare e per il quieto vivere ad un
certo punto ha dovuto scegliere una via politica; e dopo l'8 settembre
1943 ha, suo malgrado, scelto. Le spiego il perché: era uscito,
in quei giorni, un bando tedesco di arruolamento: mio marito non si era
presentato. I tedeschi, allora, l'hanno arrestato, tosato a zero e minacciato
di mandarlo in Germania. A questo punto Ettore si è iscritto nella
Guardia Nazionale Repubblicana. Ricordo che indossava una camicia verde
e lavorava, con la qualifica di sergente, al Comando situato nell'attuale
istituto "Filippo Re", in via Leopoldo Nobili. Era alle dipendenze
del dottor Rapaggi e si recava al Comando quando era libero dal giornale;
continuava infatti ad esercitare la sua professione di caricaturista. Spesso
lo andavo a prendere all'uscita del lavoro: andavamo insieme verso casa,
e ricordo il mio giovanile orgoglio di passeggiare con un ragazzo così
bello: un gagà, dicevano le mie amiche, alludendo alla sua fortuna
con le donne, ma io non ci badavo; ero innamorata, eravamo innamorati,
e questo ci bastava.
Il 1944 è passato tranquillo; eravamo
insieme ogni sera, e a me non sembrava neanche che ci fosse le guerra.
Ettore, ripeto, faceva parte della G.N.R., e non di squadre di picchiatori
e di rastrellatori. Col suo carattere, con la sua "verve", era
lontano un anno luce dal poter essere un militare vero; come suo fratello
Cesare, anch'egli assunto nello stesso corpo militare, bravo tenore; quella
del canto era la sua vera grande passione. Ettore e Cesare erano gli unici
figli della famiglia Pelli. Mio marito a causa della sua professione, era
a conoscenza di molte notizie "ufficiose": so di sicuro che più
volte ha avvisato dei suoi amici partigiani in occasione di imminenti rastrellamenti;
so che ha collaborato con loro più e più volte: e questo
perché non era quel fascista "caldo" che poi la memoria
storica reggiana ha tramandato. Non portava armi. Nel gennaio 1945 ci siamo
sposati e siamo andati ad abitare in via Poli al numero 1, in casa di una
zia. Eravamo felici e, lo ripeto, ogni sera Ettore dormiva con me: mai,
dico mai, ha passato una notte fuori casa. Il giorno della Liberazione,
il 25 aprile, verso le 10 di mattino siamo usciti per andare in centro;
arrivati in via L. Ariosto abbiamo incontrato un gruppetto di partigiani:
dal gruppo si è staccato un giovane alto, della cui identità
sono a conoscenza, che ha cominciato ad inveire contro mio marito;
dalle parole presto è passato ai fatti, schiaffeggiandolo, fino
a che alcuni suoi compagni, che se ne stavano a guardare col mitra puntato,
gli hanno intimato di smettere, sostenendo che Ettore non aveva commesso
particolari reati. Spaventati siamo tornati a casa. Io non capivo il perché
di quel gesto, e a dire il vero, anche mio marito era sconcertato: più
che il dolore fisico, l'aveva prostrato l'idea di essere in pericolo, di
poter essere malmenato da coloro che aveva così spesso aiutato e
di cui mai aveva causato il male. Abbiamo allora chiamato suo fratello
Cesare e, tutti insieme, abbiamo aspettato un amico comunista, il fornaio
(* *), che avrebbe dovuto accompagnarli al Comando partigiano per testimoniare
per loro, per garantire sul loro operato.
Il giorno dopo, il 26 aprile, di primo pomeriggio,
invece dell’amico atteso, si sono presentati alla porta di casa nostra
sette-otto partigiani, armati, che non conoscevamo. Poco prima c'era stata
una sparatoria, vicino a casa, ma non sapevamo neppure cosa fosse successo;
noi eravamo ben chiusi in casa, con la zia, e con la famiglia del piano
di sopra, che, anche allora, ha testimoniato questa verità.(1)
Gli uomini hanno perquisito la casa, a tappeto,
ma non hanno trovato armi; c'era, invece, la mia bambina di tre mesi che
dormiva tranquilla nella culla. E due giovani spaventati: mio marito aveva
25 anni e suo fratello 27. Non sono stati cattivi con noi, anzi, hanno
chiacchierato un poco, facendo domande ed informandosi della loro attività,
poi li hanno invitati a seguirli al Comando. Mio marito mi ha detto di
stare tranquilla, e di aspettarlo, a metà pomeriggio, in casa di
sua zia, in via del Guazzatoio. Si sono quindi allontanati verso il centro.
Ma io non trovavo pace; mi sentivo in ansia, e pur essendo giovanissima,
capivo che il momento era terribile e che poteva capitare qualunque disgrazia.
Inforcata la bicicletta, mi sono diretta in centro dove ho trovato mia
cugina e mia zia che piangevano a dirotto, disperate, perché avevano
saputo che erano stati uccisi i fratelli Pelli, a S. Pietro. Sono corsa
sul posto col cuore che sembrava impazzito dal dolore e lì ho visto,
a terra insanguinati, tre o quattro uomini. Uccisi. In un fosso il cadavere
di mio cognato Cesare. Di mio marito neanche l'ombra. La sera stessa, alcuni
uomini si sono presentati a casa di mia suocera, in via S. Agostino, a
reclamare i vestiti del figlio, che dicevano essere nelle loro mani, prigioniero.
La richiesta è stata prontamente eseguita dalla povera madre. Per
tutta la notte io ho sperato e pianto; la mattina seguente, di buon'ora,
sono tornata sul luogo dove ho trovato il cadavere di mio cognato: nel
canale che scorreva al posto dell'attuale Banca (alla rotonda di S. Pietro),
seminascosto e privato di orologio, portafogli e scarpe, giaceva il cadavere
di mio marito.
Sono rimasta vedova a diciassette anni con una bimba
di tre mesi. Questi i fatti. Voglio aggiungere che quando mia cugina, Silvia
Bartoli si è recata al Comando partigiano per domandare il perché
di quelle morti, le è stato risposto che dallo stesso non è
mai stato dato ordine di uccidere i Pelli.
Sarà. E allora chi è stato? E perché?
Ettore, con la sua professione, poteva aver dato fastidio a qualcuno; so
che la sua penna era a volte ironica, ma mai pungente, cattiva. Perché
uccidere un giornalista? Non si uccide con la penna, io credo. Molto più
tardi, (quasi due anni dopo) ho saputo il nome degli assassini ed anche
la motivazione: mio marito e mio cognato sarebbero stati "franchi
tiratori", cioè avrebbero sparato dai tetti contro i partigiani
l'ultimo giorno di guerra. Ma da quali tetti, domando, se eravamo tutti
in casa, disarmati, e se per andare in solaio bisognava passare dall'appartamento
della famiglia che abitava sopra di noi e che, di tendenze antifasciste,
ha poi testimoniato l'assoluta non credibilità di questa tesi? Ancora
oggi non riesco a darmi pace; guardi, per 50 anni non ho parlato, perché
sono cattolica e non voglio vendette di nessun tipo. Chiedo solo agli
assassini di mio marito (uno c'è ancora) di dirmi il perché
di quella morte. Ettore non era nella Brigata Nera, non era nell'Ordine
Pubblico, non partecipava a rastrellamenti, faceva il giornalista. Scriveva
e disegnava; non ha sparato a nessuno dai tetti e neanche, credo proprio,
da terra. Perché allora?
So che la guerra è terribile e soprattutto
la guerra civile. So anche che chi vince ha tutte le ragioni; quello
che non riesco a capire è il fatto di certe morti; chi non è
stato militare, chi non ha responsabilità dirette di delitti o gravi
reati, deve essere risparmiato... il delitto di mio marito è stato
un delitto di opinione, come quello di migliaia di reggiani che conosco
e che incontro ancora, oggi ben inquadrati nella sinistra... e che fanno
la voce grossa...quelli stessi che giravano in camicia verde col povero
Ettore Pelli, che con lui giocavano a carte o al pallone... quegli stessi
che con lui passeggiavano in via Emilia per corteggiare le ragazze... ma
loro, il 26 aprile correvano esultanti col fazzoletto rosso al collo, mentre
mio marito giaceva in un canale, morto.
Io, oggi, non chiedo niente: non accetto questa
logica del terrore; l'ho subita mio malgrado. Vorrei soltanto dire forte
che mio marito non è stato un assassino ed invitare chi potesse
dire il contrario - ma si faccia avanti con cognome e nome e prove - a
spiegarmi il perché di quelle due morti.
Io sono certa della non colpevolezza di Ettore e
Cesare Pelli, così come i loro poveri genitori, morti pochi mesi
dopo, di crepacuore.
Dopo 50 anni, la storia deve, può e deve,
rendere giustizia e riconoscere eventuali errori, se ci sono stati; non
è giusto che il nome di mio marito venga associato a quello di un
irriducibile assassino; questo è davvero troppo.
Dimostri qualcuno che ho mentito, e mi rassegnerò;
ma fino a che questo non si avvererà, l'omicidio di mio marito è
da considerarsi un fatto "privato", un odio personale, un delitto
inutile e senza senso. Anche per i suoi assassini.»
(1) Le signore Lidia e Paola Fiorenzuoli.
Maria Seglias, classe 1925
«Provengo da una famiglia piccolo-borghese.
Il nonno paterno era una Guardia Svizzera, che per ordine del Papa è
stato poi trasferito a Bologna. Lì si è sposato ed è
diventato amministratore del principe Ercolani. Mio padre, trasferito a
Reggio Emilia, ha aperto una tipografia vicino alla Stazione ferroviaria;
ma un giorno, per ordini superiori, gli hanno imposto di venderla al Partito
Fascista, che ne ha fatto la sede del suo quotidiano, il "Solco Fascista".
La tipografia, a dire il vero, gli è stata pagata, ma il babbo è
stato costretto a retrocedere, dal punto di vista professionale: infatti,
da proprietario è diventato impiegato. Con la cifra ricavata ci
siamo comperati un piccolo fondo ad Albinea, sul quale il papà ha
costruito una villettina nella quale passavamo i mesi più caldi
dell'anno. Devo dire che il 23 aprile 1945 due partigiani si sono presentati
ad Albinea con l'intenzione di portare via mio padre, accusato, pensi un
po', di aver favorito i fascisti! Solo davanti alle lacrime ed alle suppliche
della mamma, di mia sorella e mie, e dopo esaurienti spiegazioni, si sono
convinti a lasciarci in pace, ma le garantisco che abbiamo passato una
notte terribile! Appena diventata maestra sono stata assunta, quale impiegata,
all'Unione Fascista Industriali, che aveva sede in via Emilia, proprio
di fronte all'attuale Credito Emiliano; in ufficio con me c'era un certo
(* *), uomo un poco rozzo e che aveva fama di manganellatore, oltre
che di buon distributore di olio di ricino! Credo che nel 1922 si fosse
meritato tale fama. Non ne sono sicura, però. Sicura sono invece
di un suo gesto di grande umanità, che mi sembra giusto ricordare.
Eravamo ai primi del 1942; io abitavo in via Porta Brennone, 31. Nella
mia casa abitava anche una povera famiglia, composta di quattro persone:
padre, madre, una bimba appena nata e la vecchia nonna. Il padre è
stato mandato in Russia, e pochi mesi dopo la mamma è morta, sembra
per conseguenze di parto; la piccola è rimasta con la nonna che
però non era in grado di accudirla; io raccontavo di questa tragedia
in ufficio e (* *), che stava ad ascoltare, col solito impeto ha detto:
"Ci penso io!" Ha afferrato il telefono ed ha mosso mari e monti:
ricordo il suo daffare, con politici e dirigenti del partito. Certo deve
essere stato convincente se, nel giro di poche settimane, il milite richiamato
in Russia poteva tornare a casa ed assistere la sua bambina.! E questa
è solo una delle buone azioni che ho visto fare da (* *). Il
25 aprile 1945, è stato prelevato dalla cantina in cui si era nascosto,
costretto a girare per la città cantando "Giovinezza"
e quindi portato ai «Servi». Dopo atroci torture è stato
ucciso; del suo cadavere è stato fatto scempio: infatti gli
avevano infilato in bocca una forcella ed alcune donne, inferocite, gli
sputavano nel cavo orale. Orrende scene di crudeltà che non
si possono dimenticare. Dico questo non per polemica, o per gettare ombre
sulla Resistenza; lo dico per dimostrare che, a volte, ci sono state persone
che hanno pagato le loro colpe in modo spropositato. Come nel caso di Giuseppe
Sidoli. Si diceva di lui che fosse un dongiovanni, un poco gradasso, ma,
per quello che so io, non è certo stato un torturatore! Lo si vedeva
ogni giorno in piazza del Monte, in divisa, molto appariscente e, devo
dire, bello. Ma occupava un posto che nessuno, poi, gli ha perdonato. Certo
non ha fatto come alcuni, sicuramente più colpevoli di lui, che
se ne sono andati per tempo. Lui è rimasto, convinto forse della
clemenza dei nuovi padroni e consapevole del fatto di non aver ucciso nessuno.
Pensi che a quel tempo si diceva anche che il dott. Bolondi, medico dei
«Servi», torturasse! Io che lo conoscevo bene, posso testimoniare
che non c'era un medico così per bene ed onesto, incapace di viltà
o di azioni criminose, rispettoso, fino in fondo, della deontologia professionale.
Anzi, c'era: e si trattava di un bravo ginecologo, che mi aveva fatto nascere:
il dottor Ernesto Vercalli. Era un grande amico di mio padre, che con lui
faceva lunghe passeggiate in bicicletta ed interminabili partite a carte.
Un medico serio, un montanaro tutto d'un pezzo che non faceva politica,
ma il suo lavoro, e con coscienza. Una sera, tornando a casa, gli hanno
sparato alla nuca. Sa perché? Perché non aveva voluto firmare
certificati di falsa malattia ad alcuni operai delle Officine Meccaniche
"Reggiane". Era un uomo giusto, per cui un malato doveva
essere tale, se voleva stare a casa dal lavoro. Questa sua integrità
gli è costata la vita. Ricordo la disperazione di mio padre e degli
amici, ed erano tanti, che hanno seguito il suo funerale.
Io sono stata una insegnante elementare per molti
anni; ho cercato di essere sempre onesta e corretta nel mio lavoro, affinché
i ragazzi che mi erano stati affidati sapessero come la guerra - specie
quella civile - è terribile e che non doveva succedere mai più
di vedere gli orrori a cui la mia generazione è stata costretta,
suo malgrado, ad assistere. Sono state uccise persone per il loro credo
politico e, dopo la liberazione, anche per spirito di vendetta e per odio
personale, oltre che per invidia... Si era terrorizzati. Ho saputo
di violenze inaudite, di folle inferocite, di donne che avevano perso ogni
umana temperanza... Ho tenuto chiuse nel cuore, per 50 anni, delle immagini
terribili... Spero che il tempo, che tutto guarisce, abbia chiuso molte
ferite. Di certo non si chiudono se prima non si è fatta giustizia.
E per questo c'è ancora molta strada da fare; gli storici devono
rivedere la nostra storia più recente, perché mi pare
che non sia stata del tutto obiettiva. In questo modo si uccide ancora,
nella memoria di chi è restato a piangere.»
Dott.ssa Adriana Moratti, classe 1924
«Sono nata e sempre vissuta - se si eccettua
un periodo di lavoro a Toano - a Villaminozzo, dove ho esercitato per una
vita la professione di farmacista.
La farmacia per la mia famiglia è un'istituzione
dato che la possediamo - e vi lavoriamo - da ben quattro generazioni. Nella
casa costruita dal nonno abitavamo in stanze ariose ed accoglienti noi
cinque sorelle, i nostri genitori, i nonni e due zii: una famiglia patriarcale.
La mamma, Annetta Pedrazzoli, era maestra. Ha insegnato con amore e dedizione
a molte generazioni di paesani. Il papà, farmacista, aveva anche
ricoperto dal 1929 e per sette anni circa, la carica di podestà.
Tutti e due erano buoni e intelligenti ed hanno lasciato, credo proprio
di poterlo dire, un ricordo positivo nel cuore di tutti.
La nostra famiglia ci ha cresciuto insegnandoci
non tanto la gentilezza formale quanto il rispetto e la comprensione per
ogni persona, ed una affettuosa disponibilità. Il paese era tranquillo,
anche se povero come quasi tutti i paesi della montagna.
Lo scoppio della guerra e la partenza dei giovani,
in gran parte alpini, portò tanto dolore soprattutto quando dalla
Grecia e dal fronte russo cominciarono ad arrivare luttuose notizie di
morte; così, quando si arrivò all'armistizio dell'8 settembre
1943, un'ondata di euforìa e di gioia portò in molti la speranza
che finalmente i soldati sarebbero tornati e la guerra finita. Purtroppo
ben presto si vide che la guerra sul fronte continuava in condizioni ancora
più tragiche; sulle nostre montagne, considerate da sempre luoghi
tranquilli ed eventuale rifugio ai drammi dei bombardamenti delle città,
si era improvvisamente creato un fronte più drammatico, difficilmente
individuabile, in continuo movimento, che coinvolgeva comunque e sempre
la popolazione civile, rendendola vittima indifesa dell'una e dell'altra
parte. In ogni modo il 1943 finì in relativa tranquillità,
ma il nuovo anno cominciò sotto cattivi auspici.
In primis la morte di don Pasquino Borghi, fucilato
il 30 gennaio 1944 dai nazifascisti. Don Pasquino dal 17 ottobre 1943 era
stato trasferito da Canolo di Correggio a Tapignola, piccola frazione in
quel di Villaminozzo.
Poiché parlava bene l'inglese, don Pasquino
svolgeva opera di assistenza nei confroni dei prigionieri alleati (1);
non solo, già dall'ottobre 1943 aveva aiutato i fratelli Cervi e
da allora era diventato un coraggioso collaboratore dei partigiani della
montagna. A dir il vero, lui aiutava tutti: a volte prestava persino le
sue scarpe a chi doveva venire da Tapignola a Villaminozzo e ne era sprovvisto.
Faceva parte del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) ed a nessuno
negava aiuto.
Io ero a quell'epoca la presidente della Gioventù
Femminile di Azione Cattolica di Villaminozzo, e la sezione era intitolata
a S. Agnese, la cui festa cade il 21 gennaio. Il nostro parroco, don Luigi
Manfredi, aveva pensato di fare una "tre giorni" di predicazione
per prepararci a questa festa e, come relatore, aveva invitato don Pasquino
Borghi che venne e ci tenne una splendida lezione sulla carità.
Ciò accadde il secondo giorno della predicazione, il 21 gennaio
1944, appunto. Mentre parlava a noi ragazze, alcuni militi e carabinieri
si recarono a Tapignola e furono accolti dalle fucilate dei partigiani
ospitati in canonica. Gli stessi militi, rientrati verso le 18 a Villaminozzo,
andarono a bussare alla canonica chiamando fuori don Luigi.
Gli chiesero se don Pasquino fosse lì
e, avuta risposta affermativa, entrarono, lo presero e lo portarono in
caserma dove fu picchiato e, in seguito, portato in carcere a Reggio Emilia.
Tutti eravamo rimasti sgomenti ed esterrefatti. La mattina seguente mi
recai da don Luigi: era seduto in cucina, presso il camino, e piangeva
disperato. Mi disse che, se avesse immaginato una simile tragedia, non
avrebbe certo ammesso la presenza in canonica del suo confratello; anzi,
lo avrebbe fatto scappare da una porticina secondaria che dava in aperta
campagna.
Commentando i fatti, qualcuno insinuò che
la cattura di don Borghi fosse avvenuta in seguito ad una delazione di
don Luigi (2). Tale supposizione fu a quei tempi, ed è ancor
oggi, una inimmaginabile follìa, perché don Luigi era persona
preoccupata da una vita di condurre una esistenza evangelica, spinta fino
al rigore nei confronti di se stesso, consapevole dei suoi compiti, contrario
per natura ad assumere mansioni non legate alla missione di sacerdote.
L'unica colpa, se si può usare questo termine,
era forse una ingenuità che poteva avergli impedito di cogliere
il mutamento totale della situazione politica, e la nascita del movimento
partigiano.
Nella primavera la situazione si fece ancor più
difficile: Villaminozzo era importante per la sua posizione strategica
e il presidio fascista era forte di uomini e di armi. Nelle prime ore della
notte del 24 maggio i partigiani circondarono il paese, cominciarono a
sparare e vi furono morti e feriti. Il giorno successivo il Tenente Aldo
Galleni, comandante del presidio, uscì in rastrellamento, ma nei
pressi del ponte della Governara i partigiani spararono con la mitragliatrice
contro la corriera e lo uccisero insieme ad un ufficiale e a sei granatieri.
Si vedeva ormai chiaramente che le forze partigiane
erano superiori: quasi ogni giorno venivano fermate le corriere alla ricerca
di militi o di persone giudicate sospette e così il 9 giugno 1944
il Colonnello Onofaro ordinò lo "svincolamento" degli
unici due presidi rimasti: quello di Toano e quello di Villaminozzo. Il
giorno dopo quel memorabile 10 giugno, i fascisti abbandonarono Villaminozzo
che, poche ore dopo, veniva occupato dai partigiani.
Alle 10 circa piombò in casa mia Fulmine
con alcuni compagni; frugarono tutta la casa, gettando in strada gli abiti
di mio padre ed appropriandosi degli orecchini della mamma e di alcuni
altri modesti oggetti d'oro, pochi per la verità. Presero lo zucchero
e il formaggio grana e si misero a mangiarlo parlando sguaiatamente davanti
alla casa.
Mio padre, già gravemente sofferente di cuore,
vedendo tutto ciò che accadeva, piangeva e, sentendosi morire, mi
chiese di portargli alcune fotografie. Guardandole con tenerezza, scrisse
sul retro una dedica: "Il papà alla sua cara famiglia".
Il gruppo di Fulmine se ne andò, ma poche
ore dopo capitarono due partigiani che volevano soldi e gridavano con odio:
"Quanto avete da darci?"
Non essendoci che pochi denari, minacciarono di
portare via me e mia sorella.
Questo pericolo fu scongiurato perché mia
zia, Emma Albareti, corse a chiamare e a chiedere aiuto a due nostri compaesani,
Cecco Colombari e Peppo Coli. Questi nostri buoni amici parlarono in nostro
favore salvandoci la vita: non lo dimenticherò mai.
Nello stesso giorno 10 giugno 1944 i partigiani,
dopo aver compiuto atti di vandalismo, bruciando sulla piazza documenti
e incartamenti sottratti in municipio, andarono anche in canonica, mettendo
anche lì tutto a soqquadro.
Prelevarono don Luigi e lo portarono a Lama Golese
insieme ad altre persone (fra le quali Virginio Canovi, Aristide Mucciante
e Nello Coloretti).
Tre giorni dopo, a 57 anni, mio padre morì
di crepacuore per il pensiero di lasciarci indifese, ben sapendo, lui che
conosceva la guerra avendola vissuta nel 1915-1918 come capitano dell'esercito,
a quali terribili conseguenze saremmo andate incontro in un mondo ribollente
di odio e violenza.
Per provvedere al suo funerale chiedemmo ai partigiani
di lasciar tornare in paese don Luigi e ci fu concesso.
Poco dopo il Vescovo, pensando di poterlo meglio
proteggere, lo trasferì a Budrio di Correggio.
La sera del 14 dicembre dello stesso anno 1944 don
Luigi stava disponendo i fiori sull'altare: due sconosciuti arrivarono
alla porta della canonica e chiesero di lui; chiamato dalla domestica egli
si presentò subito: fu ucciso da una raffica di mitra, vittima
di una odiosa calunnia. Aveva sessanta anni.
La guerra è finita, ma ha lasciato cicatrici
indelebili.
Violenze, soprusi, ingiustizie sono state commesse
da entrambe le parti belligeranti. Se i nazifascisti hanno perso, i partigiani
non hanno vinto del tutto. Troppo sangue ha arrossato i nostri paesi, le
nostre case. Non possiamo dimenticare anche se, cristianamente, abbiamo
perdonato.»
(1) Don Borghi era collaboratore delle «A. Force», agente
della quale, nelle zone montane, era don Domenico Orlandini, Carlo. Notizia
contenuta in Nostri preti, di don Carlo Lindner, Ed. AGE, RE, 1950.
(2) ARTURO PEDRONI, su «Il Nuovo Risorgimento», 27 febbraio
1949, scrive «A Villa Minozzo si nascondeva il tradimento».
Zeno Algeri, classe 1926
«Mio padre, Ugo Algeri, è nato a Scandiano
nel 1901. La sua famiglia era povera, e, ancora piccino, ha perso la madre.
Dopo il matrimonio del padre con una nuova donna, egli, maltrattato, se
ne è andato a pascolare un gregge. Ha passato anni difficili, ma
poi, per fortuna ha incontrato la mamma, l'ha sposata, ed è cominciato
per loro un periodo buono, durato quasi vent'anni. Venuto a Reggio intorno
al 1926, è poi andato a lavorare ai Sindacati - fascisti, naturalmente,
dati i tempi - come capolega, cioè come collocatore di personale.
Nei primi anni ‘30 la mia famiglia si sposta da Mancasale a Massenzatico,
dove, nella piccola anticamera della casa viene istituito un "ufficio";
chiamiamolo così, il piccolo locale dove il papà riceveva
i contadini che avevano bisogno di manodopera, o le mondine che facevano
richiesta di andare nel Piemonte; tutti coloro, insomma, che avevano bisogno
di lavoro, e che egli aiutava a trovare. Mio padre era un uomo serio, riflessivo,
di poche parole, ma con noi, con la mamma, con mia sorella e con me, straordinariamente
affettuoso. Forse la mancanza di affetti nella sua infanzia lo facevano
un padre presente e tenero. Noi vivevamo sereni, e niente faceva presagire
la tragedia che poi si è verificata. Era fascista, ci credeva. Nel
1935 è andato volontario in Africa, ma nel 1936, quando si è
trattato di partire per la guerra di Spagna, si è rifiutato: ne
aveva avuto abbastanza. Nel 1940 è stato richiamato in servizio,
ma un anno dopo, data l'età, è stato trasferito a Reggio,
presso la Torre del Bordello, in qualità di segnalatore di preallarmi.
(Doveva segnalare, cioè, l'imminente arrivo di aerei anglo-americani).
Faceva i turni: a volte arrivava a casa a notte fonda, in bicicletta, da
Reggio.
Vestiva in divisa, sì, ma era un semplice
impiegato: in ogni modo, penso, se avesse compiuto azioni riprovevoli,
i "patrioti" avrebbero avuto modo mille volte di sparargli dal
buio di una siepe... Ma non ha mai avuto noie. Mai una minaccia, mai un
disturbo. Era un uomo leale e corretto: quando è uscito il bando
Graziani, mio padre mi ha lasciato scegliere se arruolarmi o meno; io mi
sono dato alla macchia (anche per non veder piangere la mamma); lui ha
accettato con serenità la mia decisione. Rispettava gli altri, e
le loro scelte. Un giorno della primavera 1945 io mi trovavo con alcuni
amici a casa di famosi antifascisti di Massenzatico, i Miari del Cantonazzo;
ad un certo punto entra nell'aia una pattuglia - motorizzata - di Brigatisti
Neri. Per il timore abbiamo cercato di scappare, ma quelli hanno fatto
fuoco ed hanno acciuffato quattro di noi. Siamo stati condotti a villa
Lombardini, vicino a villa Cucchi: lì ci hanno invitati a collaborare:
tre hanno aderito, io no. E così le ho anche prese. Mio padre ha
cercato di tirarmi fuori, ma non c'è riuscito. Non aveva certo un
grande potere, questo voglio dire. Era una figura di secondissimo piano.
Il 22 aprile sono stato rilasciato. Tornato a casa, dopo quattro giorni,
ho accompagnato mio padre a villa Galloni, dov'era il comando del C.L.N..
Nella Commissione giudicatrice spiccava la figura del Toscanino: dopo un
interrogatorio, accertata la totale mancanza di colpe da parte di mio padre,
la Commissione lo lascia libero, assicurandolo che non avrebbe avuto noie,
in quanto "libero cittadino". Eravamo tranquilli. Così,
in questo stato d'animo siamo tornati verso casa con le nostre biciclette.
Io avevo tre zie sposate a Milano, che avrebbero potuto ospitare papà,
loro cognato, ma non se ne vedeva il bisogno, dopo le assicurazioni dei
partigiani. Perché andare via? Non era proprio il caso. Questi i
pensieri nostri. Ma una sera, il 9 maggio 1945, passata da poco la mezzanotte,
sentiamo bussare alla porta. Erano tre uomini, con l'elmetto della P.M.
in testa (Police Military): hanno imposto al papà di seguirli per
un interrogatorio che doveva tenersi a Reggio. Noi eravamo stupiti, per
l'ora e perché sicuri delle precedenti assicurazioni di incolumità.
Ho accompagnato mio padre fin sulla porta, l'ho abbracciato e l'ho visto
allontanarsi e salire in una balilla nera. Sul ponte, a trenta metri
da casa mia, un uomo a me noto di Massenzatico, appoggiato alla bicicletta,
aspettava: non so cosa; forse di vedere se la spiata era andata come voleva.
Non voglio fare accuse. Voglio solo dire che l'ho riconosciuto.
Mia madre ha cercato il papà per anni. Ogni
volta che scoprivano una fossa, che scavavano, lei, con la sua bicicletta,
andava a vedere: cercava suo marito. Mai niente.
Qualcuno ha detto che mio padre è stato
ucciso perché nel suo lavoro aiutava preferibilmente persone del
suo credo politico, a scapito dei "rossi". Io non ci credo;
ma se qualcuno sa, con certezza, che non è stato sempre corretto,
per favore me lo dica; in ogni caso, non mi pare che sia stata una buona
ragione per ucciderlo, e poi fare sparire il cadavere! Pensi se dovessero
uccidere, oggi, tutti quelli che raccomandano qualcuno!
Se coloro che nel 1945, a Massenzatico e dintorni,
hanno fatto sparire tanta gente, in un atto di pentimento, decidessero
di parlare e, anche in forma anonima, di dire dove hanno messo i nostri
cari, forse morirebbero più tranquilli.
Io spero che sia così; i nomi si sanno.
Qualcuno è già andato all'altro mondo; ma qualcuno c'è
ancora, e magari gira su lussuose automobili ed abita in faraoniche case!
La coscienza, signori, la coscienza! Se hanno agito convinti di fare il
bene del popolo, perché nascondono così mandanti, esecutori,
tutto? Perché? Mio padre non è stato un assassino: mio
padre deve riposare in terra benedetta; loro, gli assassini di mio padre,
riposeranno al Camposanto. E' giusto questo?».
Rag. Amedeo Agosti, classe 1933
«Mio padre, Ovidio Agosti, è nato a
Bagnolo in Piano nel 1897. Si è trasferito poi a Rio Saliceto, dove,
in piazza, ha aperto un negozio di generi alimentari: figlio d'arte,
potrei dire, in quanto già dal 1817 gli Agosti esercitavano questo
mestiere, iniziato a S. Maria di Novellara. Tutti i suoi fratelli, ed erano
sei, gestivano un negozio: una passione, ed una tradizione di famiglia
ben consolidata. Rispettoso della Chiesa, senza essere bigotto, poteva
essere considerato "liberal-democratico" se si vuole definire
la sua posizione politica. Di sicuro, riguardoso verso le istituzioni e
l'ordine precostituito. Pur non essendo ricco, il papà godeva di
un largo credito, soprattutto morale. Si stava bene, nella nostra famiglia,
dove l'affetto reciproco regnava incontrastato. Era il 1936: noi abitavamo
di fronte alla casa del fascio, ed un pomeriggio si sono presentati due
militi, che lo hanno invitato a seguirli, a pochi metri da casa, appunto;
lì, gli hanno comunicato che se non prendeva la tessera del partito,
non gli avrebbero rinnovato la licenza dell'esercizio. Mio padre, con famiglia
a carico, ha accettato questa condizione. Non ha mai avuto cariche politiche,
né responsabilità di partito: ha fatto sempre, e soltanto,
il bottegaio.
Durante l'inverno 1944-45 siamo stati disturbati,
quasi ogni sera, da gruppetti di partigiani che, al calar delle tenebre,
si facevano aprire il negozio e razziavano bottiglie di Vermuth, di Marsala,
di Sassolino... tutto ciò che di alcolico era in negozio. E
non solo; siccome eravamo proprietari di un piccolo podere, che tenevamo
a mezzadria, siamo stati tassati per L. 100.000! Una enormità,
per quei tempi, tanto che per racimolare tale somma da versare ai partigiani,
mio fratello ha venduto le mucche. Ricordo che il maestro Francesco Panisi
era stato tassato di L. 50.000: un dramma anche in quella famiglia,
non unica.
Quell'inverno è stato veramente difficile,
e abbiamo conosciuto la fame; abitando in piazza, si era un poco in vista:
di giorno tedeschi e fascisti, di notte partigiani... Si viveva nel terrore.
La mattina del 22 aprile 1945, ricordo di aver contato,
dalla finestra, 830 carri armati americani provenienti da Carpi e diretti
a Guastalla: la strada era sventrata dai cingoli. E poi il 25 aprile: la
piazza, da mesi buia, si era illuminata di nuovo; intorno a noi aria di
festa, gente nelle strade e, finalmente, luce nelle strade! Ma il sabato
sera, 28 aprile 1945, le lampadine della piazza non si sono accese: triste
presagio. Verso le 22, quattro partigiani hanno picchiato alla porta: tre
a viso scoperto, uno mascherato. Ma indossava, questo ultimo, un maglione
a righe larghe bianche e nere, un poco particolare, che la mamma e mia
sorella hanno sùbito riconosciuto: apparteneva, infatti, a (* *).
I quattro uomini hanno insistito perché mio
padre li accompagnasse al comando partigiano: stizziti dallo stupore dei
familiari, che non capivano il perché di tanta fretta, data l'ora,
e spaventati dal fatto che nello stesso pomeriggio era stato prelevato
da casa, proprio vicino a noi, il dott. Ercole Fiandri, Capitano medico
del Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana ed il veterinario
di Rio Saliceto, dott. Bruno Lodesani. In modo rozzo, poi, il papà
è stato strattonato e spinto dentro una "Balilla" rosso
scuro, scomparendo ai nostri occhi terrorizzati. Non l'avremmo rivisto
mai più. Ed ancor oggi lo vado cercando, e non so darmi pace,
perché era un uomo buono, profondamente disponibile e generoso.
Con tutti. Ricordo il suo libro dei crediti: era scritto fittamente...
ma mai, dico mai, e ne sono testimoni ancora tanti paesani, ha sollecitato
quel che gli veniva... sapeva la povertà della gente, la fame, il
bisogno, ed attendeva, fiducioso, tempi migliori. Una brava persona, fuori
dalla politica attiva, che pensava solo al lavoro ed alla famiglia.
Un uomo che mai si era compromesso col regime.
Perché allora quella fine terribile?
A Ca' dei Frati, c'è ancora una chiesetta
dedicata a S. Antonio; custode, a quei tempi, era un certo Orlandini, poverissimo,
con tanti figli; di tanto in tanto, veniva dal papà a chiedere un
poco di farina, per sfamare la numerosa famiglia, mai è andato a
casa a mani vuote. Il 28 aprile, egli si trovava per caso all'osteria "Al
Butghin", quando ha sentito alcuni partigiani del luogo (poi identificati)
dire: "...E po’, stasira, andom a catar al butgar e al dutor...".
Accortisi che l'Orlandini ascoltava, lo hanno minacciato di tacere, pena
la morte sua e dei suoi figli. Diversi mesi dopo, mosso da sensi di colpa,
questo povero uomo è venuto dalla mamma e le ha raccontato ogni
cosa. Abbiamo cominciato, così, un'azione giudiziaria alla Procura
di Reggio. Ma, improvvisamente, Orlandini è stato accusato di
atti di violenza e ricoverato in manicomio; il tutto così in fretta
da lasciare allibiti...
Questo ricovero coatto ha reso, naturalmente, non
più valida la sua preziosa testimonianza. I nomi degli assassini,
però, erano stati fatti, ed una specie di processo ha avuto luogo:
a testimoniare alcune mogli di imputati, venute a Reggio in bicicletta
per compiere il loro "dovere". Mi hanno poi raccontato alcune
persone di Rio Saliceto, che le suddette signore avrebbero esclamato a
conoscenti, che domandavano loro come era andata: "...Le andada
bein, mo ghe vru una sporta ed sold!".
Col tempo ho saputo ogni cosa: so chi è venuto
a prendere mio padre, e so anche chi è stato il macellaio. In 50
anni mai nessuno ha potuto dire che mio padre si sia compromesso col regime:
ha lavorato, mantenuto quattro figli ed aiutato tutti coloro che si rivolgevano
a lui per un aiuto.
Io lo ricordo con amore e rimpianto. Mi manca
ancora, e sono anziano. Non ho dimenticato, anche se cerco, con fatica,
di perdonare. Però, per la verità storica, questi orrendi
delitti devono essere scritti. E fatti conoscere. Per amore di verità,
appunto.»
M.tra Giuliana Gubert, classe 1931
«La mia è una storia sofferta, ricca
di ricordi dolorosi che avrei voluto cancellare dalla mente, ma non è
stato possibile. Forse, raccontare le mie vicissitudini può essere
utile a chi, ancora oggi, insiste a dire che la Resistenza è stata
un'epopea meravigliosa. Sono cresciuta con i nonni materni in via Achille
Peri, a Porta Castello; il nonno era paralizzato e la nonna non godeva
di buona salute. Lo zio Pasquale Varone era Maggiore dell'esercito, Tenente
osservatore pilota e Direttore lancio-paracadutisti; un militare in carriera,
insomma, che era andato volontario sull'oasi di Giarabub a lanciare viveri
e munizioni ai resistenti. Il nonno Antonio era stato Maresciallo nell'esercito,
volontario in Africa e, lo posso assicurare, uomo tutto d'un pezzo, amante
della Patria per la quale avrebbe dato la vita. Così, con un grande
senso dell'onore, era cresciuta la famiglia, e così il nonno aveva
educato anche me. Senso dell'ordine, dell'amore per la Patria, del rispetto
per tutti.
Il 25 aprile sono scesa in strada per vedere la
sfilata dei partigiani che scendevano dalla montagna: viale Umberto era
pieno di gente che gridava ed applaudiva; io capivo che una stagione era
finita e pensavo che stava crollando tutto quello in cui avevo creduto.
Avevo 14 anni, e la sfera dell'emotività - dati i tempi - assai
sviluppata; mi veniva da piangere. Allora il signor (* *), che aveva
un negozio vicino a casa mia, vedendomi emozionata, mi ha gridato
in dialetto: "...Piangi, piangi, figlia di fascisti", aggiungendo
parole offensive, e mi ha schiaffeggiata. Dai primi di maggio, tutti
i giorni alcuni partigiani, tra cui ricordo un certo (* *), piombavano
dal nonno, piazzavano la mitragliatrice in cortile e venivano a cercare
quel "gran fascistone" di mio zio Pasquale, che, (ma noi non
lo sapevamo) era stato mandato da Torino, dove era ufficiale, nel campo
di concentramento di Coltano, in Toscana. Avendo trovato le sue divise,
le hanno strappate, e con loro le decorazioni, orgoglio dei nonni, e ce
le buttavano giù dalle scale. Non solo: per giorni, ogni volta
che salivano in casa, mangiavano tutto quello che avevamo, ed una sera
ci hanno preso quel poco di oro che la nonna custodiva in un cassetto del
comò, doni di nozze. Mio zio era benvoluto e stimato da tutti;
mi hanno raccontato, a guerra finita, che quando era ufficiale alla caserma
"Zucchi", non mangiava alla mensa ufficiali, ma insieme ai suoi
soldati. Severo, come poteva essere un cadetto uscito dall'Accademia di
Modena, onesto e fedele al giuramento, mio zio non avrebbe mai tradito.
Però so anche che mai ha fatto del male: era un militare dell'esercito,
e basta. Quelle "visite" reiterate hanno sconvolto il nonno,
che piangeva, essendo paralizzato e non potendo fare niente; e niente si
poteva fare, solo aspettare che se ne andassero e non ci uccidessero; dopo
pochi mesi al nonno, Antonio Varone, è scoppiato il cuore.
Mio padre, Giulio Gubert, classe 1901, durante la
guerra era vice-direttore della centrale elettrica di Vigheffio di Parma;
abitava in quel paesino con la mamma e mia sorella più piccola di
me e stavamo bene. Alla centrale (che allora si chiamava Cabina Edison-Volta)
egli si occupava di tutto: dalle paghe delle maestranze, alla gestione
dell'azienda... un pezzo grosso, diremmo oggi. So che non era vestito con
divisa, era in borghese, e neanche troppo ricercato. Il suo carattere semplice,
genuino, bonario, l'aveva fatto amare da operai e impiegati, oltre che
rispettare dalla dirigenza. L'8 settembre 1943, i tedeschi, piombati in
Centrale, volevano da lui un elenco di operai comunisti da mandare prigionieri
in Germania: mio padre ha risposto loro che non era in grado di stilare
alcun elenco; sapeva solo che erano tutti bravi, onesti e lavoratori. Così
sono trascorsi i mesi di guerra, e, passata la Liberazione, ai primi di
maggio si sono presentati a casa due Carabinieri che lo hanno invitato
in caserma per accertamenti; un vicino di casa, infatti, certo (* *), partigiano
dell'ultima ora, lo aveva denunciato con l'accusa di essere "bastonatore
del popolo"! Per questo, mio padre è stato poi trasferito nel
carcere di S. Francesco, in Parma, ed ivi trattenuto per un mese. La cella
in cui viveva era 9 metri quadrati e vi "risiedevano" in 12!
E' stato un mese di torture, fisiche e morali. Ma poi il miracolo è
avvenuto: un gruppo di una ventina di operai, i "rossi" del "Capannoni"
(zona calda di oltretorrente) che erano stati alle sue dipendenze e da
lui salvati dalla prigionia, hanno fatto chiasso davanti e dentro il carcere,
tanto che hanno decretato la liberazione del papà; credo che a pochi
uomini sia toccata una simile sorte. E questo gesto mi ha fatto ricredere
anche su certe figure... che avevamo soltanto temuto; spesso con ragione.
Certo, bastava una segnalazione buttata lì, senza prove... ed un
uomo poteva essere ucciso, e torturato. Questo è un aspetto della
"giustizia" partigiana che ancora oggi mi sgomenta; troppo spesso
hanno chiamato giustizia vendette personali, odî, antipatie...
Ma c'è un'altra storia, vera, che ha segnato,
seppure marginalmente la mia vita. Mio suocero si chiamava Prospero Silingardi
e di mestiere faceva il daziere. Originario di Luzzara, si era sposato
e, a metà degli anni ‘30 era venuto ad abitare a Reggio, in via
L. Ariosto, 18. Aveva due figli, bravi e belli: Luciano e Laura. Una famiglia
modello, che ancora oggi tanti ricordano; ma, soprattutto, mai avuto a
che fare con la politica attiva e col partito, anche se, è giusto
ammetterlo, credeva nel fascismo e nel 1943 si era iscritto nella Guardia
Nazionale Repubblicana. Nella primavera 1945, a causa di un bombardamento,
uno spezzone gli aveva ferito la gamba destra, per cui si era resa necessaria
l'ingessatura. E così, ingessato, l'aveva colto il 25 aprile. Nulla
però era successo in quel giorno, ma, dai primi di maggio, la
famiglia subiva quotidianamente "visite" di partigiani che, oltre
a mangiare, razziare e portare via quanto di asportabile era in casa, minacciavano
tutta la famiglia di torture, di morte, rendendoli quasi pazzi di terrore.
L'immobilità di Prospero aveva paralizzato anche la moglie ed i
figli, che se ne stavano in casa, spaventati, temendo di sentire per le
scale i passi e le risate sgangherate degli aguzzini. Un pomeriggio, per
crudeltà, hanno preso mio suocero, in quattro, e l'hanno "scosso"
fuori dalla finestra, tra il terrore dei figli e gli "evviva"
delle donne della strada che, come furie scatenate, gridavano. "...Butél
sò... cul cancher d'un fasesta!" (Buttatelo giù,
quel canchero d'un fascista). Il giorno dopo è stato commesso
un reato ancora più grave: Laura, una splendida ragazzina quindicenne,
è stata violentata da tutti e quattro i partigiani... i quali
hanno avuto il "riguardo" di mandare prima i due poveri, disperati
genitori in cucina, e di chiuderli dentro. La povera madre sentiva i lamenti
ed il pianto della sua creatura stuprata dai giustizieri...
Il 6 maggio 1945, poi, di sera, i soliti bravi sono
venuti a prelevare Prospero Silingardi. Capito tutto, raccomandava al figlio
giovinetto di curare la madre e la sorella... perché non sarebbe
più tornato...
Caricato su una Topolino stipata di uomini, è
sparito. Per tre anni la famiglia l'ha cercato; quasi ogni giorno mia suocera
andava presso i comandi partigiani a pregare, piangere, supplicare... Ma
nessuno sapeva niente. Solo nel 1948 una persona, impietosita, ha consigliato
di recarsi a Coviolo, in un certo posto e di scavare; con l'intervento
della forza pubblica ciò è stato fatto, e agli occhi dei
figli sono apparsi una decina di resti, di poveri resti... tra cui anche
quello del padre, riconosciuto dalla dentatura, rimasta intatta, e dalle
briciole del gesso intorno alla gamba destra.
La famiglia è rimasta in miseria, materiale
ed affettiva; ha continuato ad abitare la stessa casa, di via L. Ariosto,
nonostante tutto. E questo "nonostante tutto" vuole dire molte
cose: per esempio, che si è poi saputo il nome della delatrice,
della spia che si è preoccupata di recarsi al comando partigiano
a segnalare che Prospero Silingardi era un fascista, e come tale doveva
essere barbaramente ucciso. La signorina di allora, oggi pasciuta e ricca
signora, passeggia per le vie del centro tranquilla, serena, orgogliosa
forse, di essere una assassina.
M.tro Vado Rabotti
«Sono un maestro elementare in pensione; nel
1943 ero militare a Bellagio di Como, in qualità di Sergente di
fanteria presso il 67° Reggimento. L'8 settembre, con lo sbandamento
dell'esercito, sono scappato a casa, dove sono arrivato il 14 insieme ai
miei quattro fratelli, tutti militari. L'11 novembre di quell'anno ho cominciato
ad insegnare a Groppo di Vetto; andavo a scuola a piedi, perché
ero ricercato, e utilizzare la corriera poteva essere pericoloso. Ero infatti
considerato disertore; mi è andata bene, ed ho potuto insegnare,
abbastanza tranquillo, fino al giugno successivo. Dopo la fine della scuola
dormivo nei campi, per paura dell'arresto. Nel luglio 1944 sono stato arruolato
nella Guardia Nazionale Repubblicana, insieme ad una decina di altri giovani
di Leguigno. Ci hanno portati a Reggio, in via Gazzata, credo alla caserma
"Muti"; lì siamo stati per circa quaranta giorni. Io avevo
la qualifica di Sottotenente e spesso mi mettevano di ronda; non sono stati
giorni tranquilli, per la continua paura di essere assaliti o uccisi. Finalmente,
un Maresciallo di Viano ha organizzato una fuga: molti sono scappati; io
avevo un permesso di due giorni, ma, una volta arrivato a casa, non sono
più tornato a Reggio. Ma anche Leguigno era pericoloso: mi cercavano,
ed allora, anche per non mettere nei guai la mia famiglia, mi sono visto
costretto ad arruolarmi nei partigiani. Era la fine di agosto 1944.
Non c'era alternativa, per me. Ero nella 26°
Brigata «Garibaldi», in località "Fagiola",
presso Villaminozzo. Là comandava un ufficiale inglese, coordinatore
dei vari distaccamenti della provincia. Il suo ufficio, allestito in una
baita, era dotato di apparecchio radio ricetrasmittente, col quale comunicava
con il comando della V° Armata americana. Da lui abbiamo ricevuto in
dotazione armi automatiche e munizioni che servivano per andare, poi, in
zone di operazioni. Comandante del distaccamento era Dino Meglioli, Giuda;
pochi giorni dopo siamo partiti verso il monte delle Tane, dal quale si
potevano osservare i movimenti delle truppe tedesche. Nostro compito era
quello di impedire ogni movimento dei nemici verso la montagna. Alle ore
7 di mattina dell'8 settembre 1944 siamo stati accerchiati dai tedeschi
appartenenti ai reparti delle «S.S.» di stanza a Pantano di
Carpineti. Giuda ha imbracciato il suo "Parabellum", ma non ha
fatto in tempo a sparare: una raffica l'ha colpito alle gambe; insieme
a Domenico Casali è stato catturato e portato a Pantano, dove, il
15 settembre, sono stati uccisi. Io sono riuscito a scappare nel bosco,
dove mi sono nascosto in un fitto cespuglio di vitalba, da dove potevo
seguire i tedeschi impegnati nel rastrellamento dei miei compagni. Ma ero
ferito, sanguinavo: ormai sfinito, ho raggiunto carponi Ammana; lì,
una anziana signora mi ha accolto ed ha mandato a chiamare il dottor Gabbi,
che, rischiando la vita, è accorso quasi subito. Sono poi stato
curato anche dal dottor Pistelli; e così, dopo poche settimane,
è finita la mia vita di partigiano. Nell'ottobre ho avuto l'incarico
annuo di insegnare a Legoreccio di Vetto; lì incontravo spesso Riccardo
Ferrari, veterinario. Era disperato per la morte del padre (1), Maresciallo
della Forestale di Castelnovo Monti. Credo che quella morte sia stata non
un'azione di guerra, bensì un fatto di odio personale. Vede,
la Resistenza è stata un fatto grandioso, ma nella sua luce hanno
orbitato uomini non buoni, assassini, addirittura. Questo va detto, a onor
del vero. E la denuncia di questi, che hanno infangato un movimento così
fulgido, sarebbe ora di farla. Questa azione ripulirebbe la Resistenza
dalle scorie e dalle ombre.
Il 17 novembre, poi, nella scuola in cui insegnavo,
proprio nella mia aula, si è consumato il famoso eccidio del distaccamento
"Cervi". Ecco come si sono svolti i fatti. Grazie ad una spiata
effettuata da una donna, (* *), alla quale, non va dimenticato, nel giugno
di quell'anno i partigiani avevano ucciso un fratello medico, e ad
un milite del luogo, (* *), oltre ad un ex garibaldino, (* *), un forte
contingente di uomini partito da Ciano, arriva a Legoreccio. Diversamente
da come ha raccontato Franzini, il fatto si è svolto così:
una pattuglia del distaccamento, composta da tre uomini, era di guardia
a Casalecchio; fuori era freddo, ed uno dei ragazzi, per riscaldarsi un
po’, ha invitato gli altri in casa sua per bere un bicchiere. La cucina
era a pianterreno; i tre hanno appoggiato i fucili al muro e si stavano
scaldando; dalla porta socchiusa sono entrati, armati, i tedeschi. Presi
dal terrore, i tre partigiani hanno detto ai nemici la parola d'ordine,
in cambio della vita. Hanno poi accompagnato i tedeschi verso la scuola
di Legoreccio. Alla parola d'ordine, la guardia ha aperto il portone...
e dopo è successo il finimondo! Il distaccamento intero fu distrutto.
Nel giorno dell'Assunta, credo nel maggio 1945 io ero a Vedriano a ballare:
mi si sono avvicinati due uomini e mi hanno chiesto se andavo con loro
ad ammazzare (* *). Io ho risposto: "...La guerra è finita;
io continuo a ballare!"
(* *), poi, è stato preso ed accompagnato
in tutte le case di Legoreccio per essere riconosciuto; cosa che si è
regolarmente verificata. Tutti lo avevano visto, quella notte. L'ultima
fu una ragazza. Alla domanda se avesse visto quell'uomo, ha risposto, sicura:
"...Sì, è venuto a casa mia per chiedermi una corda
da legare il comandante del distaccamento "Cervi" (Arturo Gambuzzi)
al biroccio..." (2). E così l'hanno portato al cimitero
ed hanno cominciato a scavare una fossa; (* *) era seduto a terra, e guardava
tranquillo. Ad un certo punto si è alzato, è entrato nella
buca, si è disteso, ed ha detto: "...Potete fermarvi qui...
è già abbastanza profonda...". Il suo ultimo desiderio
è stato quello di avvisare la madre del luogo della sua sepoltura.
E' morto con dignità: così mi hanno raccontato coloro che
erano sul posto e che l'hanno sepolto.
La guerra civile è stata una tragedia,
mi creda. Ed ha lasciato strascichi di odio, di risentimenti, di voglia
di vendetta. Troppi soprusi sono stati compiuti, da entrambe le parti.
Io lo posso dire, perché sono stato arruolato prima nella G.N.R.
poi sono stato nei partigiani. E' così, purtroppo. Razzìe?
A volte... non nel mio distaccamento, però.
In quel mese io non ho mai visto compiere razzìe o ruberie: so,
comunque, che qualcuno ha rubato, in nome della fame, del bisogno, e, cosa
grave, della Resistenza...
Nel castello di Leguigno c'era un reparto tedesco:
i militi, a volte, venivano al casello a prendere latte e burro.
Una volta sono venuti da mio padre: chiedevano "Uva...
uva...!" Mio padre li ha accompagnati nei campi, per fargli vedere
che non era tempo di vendemmia... volevano, invece, uova! Devo ammettere
che non hanno mai disturbato, in paese, mai fatto razzìe, mai portato
via niente.
In quel periodo non è stato toccato un abitante;
erano militari abituati alla severità, all'ordine. Certo, li
temevamo; ma bastava lasciarli stare. E dalla primavera 1944, invece, sono
stati, continuamente, provocati. Così era la lotta clandestina...
Era una guerra di disturbo... questa era, per necessità, la sua
filosofia... E così è cominciato, per noi tranquilla gente
di montagna, il calvario delle paure, dei rastrellamenti, dei lutti...
Questo è stato il prezzo della libertà.»
(1) Ostilio Ferrari.
(2) Arturo Gambuzzi, Cervi, fu catturato ed ucciso poi a Vercallo
il 21 dicembre 1944.
Rag. Franco Formentini, classe 1930
«Sono nato a Pieve Rossa di Bagnolo il 4/9/1930.
Mia madre, Maria Menozzi, era maestra e mio padre, Guido, aveva una attività
commerciale; anzi, più di una, perché, insieme ai suoi fratelli,
gestiva un negozio a S. Tommaso. Nel 1934 la mia famiglia si è trasferita
a Massenzatico, dove mio padre cominciava a gestire un mulino con annessa
attività commerciale. Vivevamo una vita tranquilla, caratteristica
dei tempi. La mamma provvedeva a far crescere i figli ed il babbo lavorava;
serio, preciso, onesto, pensava solo al suo mulino ed alla sua famiglia,
che amava e rispettava. Come tutti, per poter esercitare, aveva la tessera
del fascio, ma non faceva attività politica. Ricordo di averlo visto
poche volte in divisa, e solo in occasioni di ricorrenze e feste; quotidianamente
vestiva abiti civili, sempre imbiancati dalla farina...
Nel 1941, a causa di difficoltà economiche,
gli fu ritirata la licenza; per pochi mesi, a dire il vero, ma sufficienti
per metterci in ginocchio. Ricordo che il papà, allora, andò
a fare il carrettiere, e noi bambini aspettavamo con ansia il suo ritorno,
la sera, per poter usare la farina gialla che portava a casa e mangiare
un poco di polenta. Ma nonostante le difficoltà la mia era una famiglia
serena, e mai ci è mancato affetto e solidarietà. Devo dire
che eravamo rispettati e benvoluti, a Massenzatico, e nessuno ci ha mai
fatto dispetti o cattiverie. Le cose si sono poi rimesse a posto, e, col
lavoro di quattordici ore al giorno, si stava benino. La mamma, natura
generosa, scambiava sacchetti di grano con farina bianca alle donne, più
bisognose di noi, che bussavano alla nostra porta: e questo senza discriminazioni
politiche.
Mai abbiamo avuto noie, ripeto, fino alla fine della
guerra; neanche nel periodo che seguì il 25 luglio. Si andava d'accordo
con tutti, e si cercava di fare il proprio dovere. Questa era l'aria che
si respirava in casa mia, e per questo la tragedia poi accaduta mi ferisce
ancora e mi provoca uno struggente dolore.
La notte tra il 9 e 10 maggio 1945, verso l'una
e venti, abbiamo sentito bussare alla porta: una Jeep si era fermata davanti
al mulino e ne erano scesi tre uomini, i quali, a volto scoperto e con
fare abbastanza gentile, hanno chiesto a mio padre di seguirli per accertamenti.
L'ora tarda e la sorpresa non avevano sconvolto più di tanto il
papà, che, sicuro della sua onestà politica e personale,
si era vestito e si accingeva a seguirli tranquillamente. La mamma, lei
sì, piangendo lo pregava di non andare, di aspettare la mattina
seguente. Ricordo che mio padre la rincuorava dicendole: "...Di
me e delle mie azioni rispondo dovunque e ad ogni ora... non ho fatto niente
di male... perché dovrebbero farne a me...?"
Un bacio alla moglie, uno ai figli - spaventati
- e... non lo abbiamo più rivisto. Aveva 47 anni, nostro padre.
Nella casa ormai priva delle sue braccia e del suo cuore restavano una
vedova e tre bambini.
Pochi giorni dopo la sua sparizione, io, allora
quindicenne, ero andato dal Toscanino, un capo partigiano molto conosciuto
a Massenzatico, per domandargli qualcosa... non ne sapeva niente, disse.
Da allora è cominciata la mia Via Crucis: perché hanno ucciso
mio padre? Cosa poteva avere fatto? Era un bell'uomo, si presentava bene...
poteva incutere soggezione per il suo modo sbrigativo, serio... Ma altro...
che motivasse una morte? A noi ragazzi non ha mai dato uno schiaffo.
Ho pensato, più di una volta, ad un delitto
non politico, ma personale... frutto di invidia... Ma che invidia? Noi
non avevamo né automobile né motocicletta, simboli ancor
più allora di benessere... La politica deve essere stata un pretesto.
Questo è ciò che penso. In quel maggio, vendette, odî,
ripicche, hanno avvelenato un'atmosfera di festa. Sono cose note; d'altronde,
a Massenzatico, abbiamo avuto sette "dispersi"; scomparsi senza
apparente ragione e che aspettano sepoltura cristiana. Ecco, io chiedo
che chi sa racconti, perché quei poveri morti non devono restare
nell'anonimato, uccisi ancora dalla dimenticanza. E qualcuno che sa, che
ha visto, che ha ucciso c'è ancora, ne sono sicuro.
Perché continua questo ostinato silenzio?
Sono passati cinquanta anni ed ancora i resti dei nostri morti non si possono
ritrovare. E quanti ce ne sono! Penso ai ventisette di Campagnola, completamente
rimossi dalla memoria storica reggiana; sì, dimenticati. I libri
usciti in questi ultimi tempi, infatti, a partire da quello di Zambonelli
(1) a quello di Baraldi (2) non li citano nemmeno. Perché questo
muro di omertà? Per ritrovare un comportamento del genere bisogna
rifarsi ai famigerati "Squadroni della morte" di Pinochet o alla
Ghepeù stalinista, come sostiene Flavio Parmiggiani (3).
Qualcuno ha lanciato dei sassi, ma poi ha tirato
indietro la mano.
Nel 1947, - ecco qui la lettera in originale - un
anonimo ha spedito a mia madre, che ce l'ha tenuto nascosto per anni, questo
manoscritto; in esso, l'informatore, semi-analfabeta, racconta quanto segue:
(traduco per comodità):
"Sono un partigiano. Mi dispiace ma non
posso tacere. Gli assassini di vostro marito e (dei mariti) di tutte le
altre, comprese le casare, del vecchio fiduciario e di tutti sono i seguenti:
(seguono 11 nomi). Io ho veduto tutto e vi ho detto tutto. Unitevi e fate
fare una retata subito che non vi sbagliate... Quanti ne hanno ammazzato!
E (* *) ha tutte le cinghie dei pantaloni (degli uccisi)..."
Più tardi, una persona degna di fede mi ha
confidato che in un podere di Massenzatico, di proprietà (allora,
nel 1945) di (* *), si trovava un pozzo nero, pieno, sì, ma non
di liquami... e che lo stesso (* *), nella cui casa si facevano certi "processi",
eseguite le esecuzioni, teneva per sé le cinghie dei pantaloni degli
uccisi... cinghie poi passate ad un suo nipote, (* *)...
Le segnalazioni sono continuate per anni, finché,
tre anni fa, mi sono deciso e mi sono recato dal Magistrato di competenza,
il quale, in data 19 settembre 1996 ha mandato i Carabinieri ed i Vigili
del Fuoco per fare indagini nel succitato podere. Il pozzo era cementato.
Ora è mio intendimento proseguire, perché ormai troppi, da
troppe parti, mi mandano segnali concordanti...
Io vivo nel dolore, nell'angoscia di sapere dov'è
mio padre. Vorrei solo sapere dove l'hanno messo, per poterlo seppellire
in terra consacrata. Niente di più. Niente vendette. Niente risentimenti.
Niente di niente: solo poter andare a pregare sulla sua tomba. Chiedo troppo?»
(1) ANTONIO ZAMBONELLI, Antifascismo e Resistenza in un paese della
«bassa»: Campagnola Emilia (1919-1945). ANPI.
(2) BARALDI EGIDIO, Nulla da rivendicare, Tecnostampa, 1989.
(3) PARMIGGIANI FLAVIO, Lettera aperta al Comitato per le celebrazioni
del 25 aprile 1990 di Campagnola. Lettera che non è stata poi pubblicata
dal periodico «Il Borgo» a cui era stata indirizzata.
Celestina Fontana, classe 1914
«Sono nata al Cigarello, frazione di
Carpineti, nel 1914 e lì ho vissuto fino al 1948, anno in cui mi
sono sposata e sono venuta ad abitare nella frazione della "Boastra",
in un'antica casa che sembra avere origini matildiche. I miei genitori
erano contadini, modesti, ma non poveri: mio padre aveva un fratello prete
ed uno medico, morto giovanissimo. Come medico era un fratello di mio marito,
il dott. Ostilio Fontana, che per tanti anni ha esercitato presso l'ospedale
di Castelnovo Monti. Dunque, la mia famiglia, pur essendo composta di 14
persone, viveva tranquilla: fino al 1943, quando, nel tardo autunno, sono
cominciate ad arrivare le notizie dei primi arresti, e dei primi movimenti
partigiani sulle nostre montagne. Vicino alla nostra casa era situato il
vecchio casello; nell'estate 1944 alcuni tedeschi vi avevano posto la loro
residenza, creando nella gente una certa paura. Ricordo che una mattina,
era un sabato, un tedesco si stava facendo la barba davanti alla porta,
in cortile: d'improvviso una fucilata l'ha falciato. Nel bosco retrostante,
infatti, erano appostati i partigiani. Il giorno dopo è arrivata
al Cigarello una pattuglia tedesca di rinforzo, con lo scopo di fare un
rastrellamento e di bruciare le case circostanti. Un Sergente è
venuto a casa nostra, per prelevare le donne che dovevano ammannire il
morto; eravamo terrorizzate. Con le braccia in alto, ci siamo dirette verso
il casello: un occhio ai tedeschi, che avevano le armi spianate, e un occhio
al monte Mondovilla, sede dei partigiani...
Tutti ci minacciavano, e noi non sapevamo cosa fare.
Poi, per fortuna, è arrivato don Giuseppe Sala, che ha spiegato
ai tedeschi che noi eravamo brava gente e che non avevamo alcuna colpa;
così ci hanno risparmiato, e anche le nostre case. Ci hanno preso
quattro vacche, delle sei che erano nella stalla. Pochi giorni dopo abbiamo
ricevuto visite anche dagli altri... Il gruppo partigiano era comandato
da (* *), ma in casa nostra si è presentato un vicino di casa: (*
*), di Marola. Costui, armato di fucile, ha ordinato che venisse prelevato
tutto il frumento che era in sacchi, tutta la roba di maiale, le uova...
pensi che noi si faceva il sapone in casa: beh, hanno preso anche quello.
Poi sono andati nella mia camera e mi hanno rubato
la dote, e dei pezzi di stoffa che mi servivano per il lavoro: infatti
facevo anche la sarta. Mio padre Artemio, già molto anziano, piangeva
e si era inginocchiato davanti a lui, supplicandolo di pensare ai bambini,
alle ragazze... lo pregava di lasciarci
qualcosa da mangiare... allora lui ha detto: "...Noi
stiamo salvando l'Italia, e quando ripasserò mi darete il vostro
vino migliore!" Altro che vino migliore... non è più
ripassato, e ha fatto bene! Ritirandosi, poi, sono passati per i campi,
dove la mamma aveva nascosto, in sacchi, della tela per lenzuola: hanno
portato via anche quella! Guardi, quella razzìa ci ha veramente
distrutti; io non ho più risentimenti, ma la mia dote, perfino l'ombrello...
a chi poteva servire? Non credo che tra i boschi apparecchiassero con le
tovaglie ricamate... Mah, c'è gente che si è arricchita,
altro che...
E le visite si sono poi ripetute altre volte; guardi,
se dei tedeschi avevamo paura, dei partigiani eravamo terrorizzati; erano
più rozzi, più prepotenti. E' vero che i tedeschi ci
costringevano ad aiutarli in cucina, pelando le patate e preparando, a
volte, da mangiare, ma poi ci davano la carne buonissima, quando l'avevano...
Se ricordo episodi clamorosi? Eccome! Pensi al povero
Maresciallo Ferrari di Castelnovo Monti: mi raccontava mio cognato, il
dott. Ostilio Fontana, molto amico di Marconi, che la morte del Ferrari
era stata causata dalla spiata di un castelnovese.
Un altro caso è stata la morte della Tersilla
Wender: qualcuno diceva che aveva fatto la spia... non lo so; di certo
ricordo che l'avevano rapata, poi l'hanno uccisa. Processo? Ma scherza?
Allora non c’era tempo per i processi…
Altro caso: un certo Brunin, Bruno Balestrazzi,
è stato arrestato a Carpineti, dove abitava; l'hanno preso e costretto
a salire fino al castello con davanti una "corga", una cesta
piena di fieno come si faceva con gli asini; poi, arrivato su... mitragliato.
Peggio che con una bestia. Era un buon uomo, faceva solo il gradasso...
si dava un po' di arie, ma non credo fosse un assassino. Se potesse
parlare la zona intorno al castello di Carpineti... ne salterebbero fuori
di cadaveri...
E il Rossetto? Quello era un ragazzino; ricordo
che cantava e suonava con un pettine, e la carta velina delle sigarette...
allora non c'era niente, sa? Forse era un simpatizzante, ma non certo un
milite con delle colpe sulla coscienza; beh, fatto fuori anche quello,
freddamente.
Anche a Pantano non hanno scherzato; la moglie di
Berto Rossi era incinta: ha visto passare il partigiano (* *) con un prigioniero:
pochi attimi dopo, uno sparo. Dalla paura ha abortito.
Un mio cugino era nei partigiani: un giorno ha rubato
la cavalla del pittore Bazzani di Giandeto ed è venuto da noi; mio
padre l'ha cacciato via, perché non voleva essere coinvolto con
queste razzìe. Noi siamo cattolici ed il povero don Panini ci aveva
insegnato che la violenza era un peccato, da qualunque parte fosse esercitata...
Soprattutto gli abusi mio padre non li poteva compatire; perché
di abusi, troppo spesso, si è trattato. Vede, io non ho nulla contro
la Resistenza; l'idea era anche giusta. Ma ci sono stati degli uomini che
in nome suo hanno rubato per sé, per le loro famiglie, per arricchirsi
loro a danno di altri poveri... questa non è Resistenza. Qui
in montagna li abbiamo temuti: ecco, temuti, quanto e più dei tedeschi;
e quando, finalmente, sono andati in pianura, il 24-25 aprile 1945, abbiamo
tirato un respiro di sollievo, sperando che finissero le razzìe
e le enormi paure. Era una guerra civile, era guerra tra vicini di
casa, era guerra tra poveri. I nuovi vincitori l'hanno poi messa alla loro
maniera, la storia... ma noi ricordiamo, noi c'eravamo, e le posso dire
che per farla intera, ce ne manca ancora un bel po' di verità...
Ci sono delle pagine bianche da scrivere; non so se basta un titolo
di studio per riempirle con onestà: io credo che le possano riempire
le parole, le memorie di quelli che c'erano, che hanno patito nella carne
viva i tormenti di quei mesi tremendi, quando la vita non valeva più
niente. E non solo per opera dei nazifascisti, come le ho detto, ma anche
per opera di chi, dietro a un fazzoletto rosso, nascondeva un animo rapace,
una tendenza a delinquere che di resistenziale non ha proprio niente.»
Idelbrando Cocconcelli, classe 1923
«Nel febbraio 1943 sono stato richiamato
alle armi; mi hanno inviato a Verona, presso il IV° Centro Deposito
Comando. L'8 settembre sono scappato dalla caserma e sono arrivato a casa,
a Massenzatico. Il 22 febbraio '44, a causa del bando di chiamata, mi sono
ripresentato; se non lo facevo, ci sarebbero potute essere ritorsioni verso
i miei familiari. Sono stato destinato a Bologna, presso il reparto
"Colombofilo". Io sono sempre stato appassionato di colombi viaggiatori,
i cosiddetti "belgi", ed il compito a cui era adibita la mia
compagnia consisteva appunto nell'allevare ed addestrare questi colombi
per portare messaggi al fronte.
Una notte dell'estate '44 mio padre è stato
svegliato da alcuni partigiani del paese i quali gli hanno fatto capire
che se restavo a militare avrei avuto dei guai: di più, volevano
la mia divisa! Io ero stretto tra due fuochi: da una parte le minacce del
citato bando della R.S.I.; se avessi disertato sarei stato passibile di
fucilazione, se non avessi disertato avrei subito le conseguenze minacciate
dai partigiani. Ho deciso di disertare ed il 18 settembre 1944 sono tornato
a casa, nascondendomi in casa di amici, gli Zavaroni.
Non ho voluto andare con i partigiani perché
io sono di una famiglia di cattolici praticanti, e poi non volevo fare
uso di armi. Io sono così. Sono stati mesi terribili, fino al 25
aprile 1945; vivevo nel terrore di essere scoperto e temevo anche per i
miei ospiti e la mia famiglia. Ma i guai, con la Liberazione, non dovevano
finire: in un certo senso sono anche aumentati. In paese, a Massenzatico,
si viveva nel terrore, rosso, stavolta. Non tirava buona aria per chi non
era comunista, o almeno simpatizzante. Infatti, non erano presi di mira
solo gli ex fascisti, minacciati e fatti sparire in modo misterioso, ma
anche per i cattolici mancava l'ossigeno. Le minacce erano all'ordine del
giorno, ed il più minacciato era il nostro parroco, il bravo Vicario
don Adelmo Morsiani. Mi ricordo che lui non riusciva a nascondere la sua
angoscia e diceva chiaramente di temere per la propria vita, dopo aver
ricevuto delle minacce da anonimi. Eppure il Vicario si era distinto durante
il periodo della guerra civile, per aver salvato dai nazifascisti numerosi
abitanti di Massenzatico: si ricordano episodi, in questo senso, che si
potrebbero definire eroici. Sempre in quei tempi dell'immediato dopoguerra
poteva anche essere rischioso, per un cattolico praticante, dare pubblica
manifestazione della propria fede. Era rischioso, ad esempio, andare, di
sera, alle adunanze dell'Azione Cattolica... Ne sa qualcosa Mario Borghi,
di Gavassa, che proprio mentre rientrava da una riunione in canonica, è
stato aggredito da alcuni ceffi, bene identificati, che l'hanno tramortito
di botte. Facevano parte di quella squadraccia (in un certo senso analoga
alle squadre fasciste di triste memoria) giovani comunisti di Massenzatico,
Gavassa e frazioni limitrofe. Tra gli altri, il malmenato aveva riconosciuto
un certo (* *)... e poi... beh, lasciamo stare perché qualcuno è
ancora al mondo! Ricordo bene, invece, l'atmosfera di paura che ancora
si respirava quando si andava alla processione con la Madonna Pellegrina;
c'era bisogno di tanto coraggio per andarci, e bisognava andare in gruppo.
Non era prudente percorrere delle stradine da soli, per non finire come
Borghi. Ma anche così, si era oggetto di scherno e di parole minacciose
e volgari. C'è voluto del tempo perché il clima si rasserenasse
un poco: c'è voluto il 18 aprile 1948, con la batosta elettorale
che i comunisti hanno subìto: se avessero vinto loro, non so proprio
come sarebbe andata a finire. Anzi, lo immagino: come l'est europeo.
I momenti peggiori sono stati i primi mesi dopo l'aprile 1945; anche se
hanno perso la vita solo dei fascisti dichiarati, la paura, il terrore
si sentiva nell'aria. In ogni modo, anche quei delitti avevano poco
a che fare con la giustizia; tutti noi conoscevamo le persone "scomparse";
non c'erano tra loro dei delinquenti; anzi. Credo che fossero odî
personali, vendette di parte; erano delitti assurdi che non avevano più
senso a guerra finita.
Quei delitti lì hanno ancora meno senso
se considerati a distanza di tempo. Dei veri e propri crimini. Ma il crimine
più grande, secondo me, è di continuare dopo 50 anni, a tacere,
a far finta di non sapere dove sono le decine di cadaveri massacrati da
vanghe e picconi. Non uno, dico uno, che senta il bisogno di confessare?
Ci sono dei figli che ancora non si danno pace;
vorrebbero solo seppellire pochi resti: la morte è uguale per tutti.
Questo ostinato silenzio è ancora più
criminale.»
Ergisto Moglia, classe 1928
«La mia famiglia è originaria
di Bibbiano, ma negli anni ‘30 mio padre era ambulante di tessuti e si
è comperato una casa a Vezzano sul Crostolo. Di lì si spostava
nelle colline circostanti per vendere la sua merce. So che aveva la tessera
del Partito Fascista, come tanti, per lavorare. Non eravamo ricchi,
ma si viveva forse meglio di altri; avevamo una bella casetta e si stava
contenti. Scoppiata la guerra, abbiamo avuto delle difficoltà,
anche perché, nel 1944, i tedeschi ci hanno requisito parte della
casa e si sono stabiliti da noi. A dire il vero sono sempre stati corretti
e gentili, tanto che il comandate del piccolo presidio, ancora oggi, mi
manda gli auguri per Natale. Certo avevamo perso la nostra libertà
e, cosa ancor più grave, eravamo sospettati dai partigiani di collaborazionismo
col nemico; credo che mio padre Albino cercasse solo di sopravvivere.
In ogni modo, nell'autunno 1944 si sono presentati
alla porta dei partigiani: volevano denaro. Gli abbiamo dato tutto quello
che c'era in casa; non bastava. La storia è andata avanti per giorni,
finché è successo un fatto odioso. Mio padre aveva mandato
un suo aiutante in fiume a raccogliere sassi per costruire un muretto;
gli aveva dato la cavalla e il biroccio, per il trasporto. Arrivato sul
greto, sono sbucati dalla macchia tre uomini, che con le armi puntate gli
hanno detto di tornare dal padrone, di dirgli che la cavalla si era azzoppata,
e quindi di portarlo lì; mio padre è corso in Crostolo, ma
quando ha capito il tranello, era troppo tardi; è stato sequestrato
e portato in quel di Pecorile, ed ivi trattenuto per una settimana. Per
il suo rilascio, i partigiani volevano del denaro, molto. Mia madre è
andata in banca ed ha ipotecato la casa. Quel prelievo fiscale è
costato alla mia famiglia anni di lavoro per pagare i debiti. So che è
stato salvato da un sacerdote, perché, dopo aver avuto i soldi volevano
anche farlo fuori. Pensi che onestà! Sempre nel 1944, ma in novembre,
in seguito ad un rastrellamento, sono stato portato alla caserma dell'Artiglieria,
ora «Zucchi». Per un favore fatto ad un ufficiale tedesco (i
miei gli avevano affittato una stanza in via Emilia, sopra il negozio "Moglia")
ho potuto restare a Reggio ed occuparmi, insieme ad un piccolo gruppo di
giovani, delle auto sequestrate dai tedeschi.
Siamo rimasti lì per alcuni mesi. Avevamo
una Topolino che serviva per i trasferimenti degli ufficiali lungo tragitti
brevi; ricordo che Camellini e compagni, che erano partigiani, a mia insaputa,
a volte, di notte, la usavano per azioni loro, e così, la mattina
seguente, non c'era più benzina, con stupore dell'ufficiale tedesco
che non capiva come sparisse così alla svelta! Una sera sono stato
mandato a Bibbiano a prelevare la moglie ed i figli del Colonnello Battaglia,
rapito e poi ucciso dai partigiani... Insomma, mi muovevo liberamente e
devo dire, con onestà, che quei mesi non sono stati infami; devo
dire anche che non ho mai visto compiere azioni di crudeltà, almeno
in caserma. L'orrore è cominciato dopo il 25 aprile: morti in
tutti gli angoli della città, sparatorie, razzìe, vendette...
Non si può descrivere il clima di quei giorni; davanti alla Chiesa
della Madonna della Ghiara ho visto uccidere, freddamente, un uomo.
Ero molto giovane, e quell'esecuzione sommaria, così brutale, mi
aveva traumatizzato. Guardi, il 25 aprile i partigiani sono entrati in
caserma, nei magazzini, dove ogni cosa era in ordine; hanno gettato a terra
farina, pasta, olio... si sprofondava in trenta centimetri di questi alimenti
sprecati... sembravano avvoltoi. Non lo dimenticherò mai; c'era
una smania di distruggere, un atteggiamento volgare... non so come dire...
disumano, ecco. Era qualcosa che andava oltre la voracità, una sensazione
di violenta, assurda razzìa; perché quella roba poteva servire
a chi aveva fame. Dopo di questo spettacolo, io mi sono presentato, per
consiglio del vice-Prefetto, al comando partigiano. Non avevo commesso
alcun reato, avevo 17 anni e mai avevo fatto azioni di guerra. Credevo
proprio di potermene tornare a casa, dai miei genitori, ma invece mi hanno
mandato in S. Tommaso, in carcere. Dopo un breve interrogatorio, il comandante
Zeta, che risiedeva a villa Levi in via Fontanelli, ha creduto bene di
mettermi al fresco. Ho salvato la pelle, è vero, ma ho avuto
il modo di vedere e di ricordare cosa è stata la giustizia partigiana,
i processi, i giudici popolari... Pensi che spesso, a giudicare delle colpe
- vere o presunte - di ex fascisti, c'erano i peggiori elementi, la feccia,
oso dire, della città. Massacratori, assassini, prezzolati, ladri,
il fiore del "popolo giusto", insomma. Con le dovute eccezioni,
naturalmente, ma poche, queste eccezioni. Questo è stato il dopo-Liberazione.
Qui a Reggio i comunisti hanno scalzato i fascisti, si sono affrettati
a prenderne il posto, perfino nella polizia, e, con la memoria ben fresca,
hanno ripetuto, a volte con maggior bravura, le loro gesta. Così
va il mondo. E pensare che la storia che leggiamo, relativa a quel periodo,
ha mitizzato azioni ed uomini che sarebbero da galera.»
Rag. Giuseppe Manfredi, classe 1941
«Mio padre, Anno Manfredi, classe 1911, era
di famiglia benestante. Nativo di Budrio di Correggio, egli gestiva, fino
al 1943, una rivendita-tabaccheria con il fratello Nello nello stesso paese.
Uomo sincero e serio, quasi inflessibile, mio padre non era certo un fascista
"tutto d'un pezzo", come si suole dire. Spirito indipendente,
ricorda la mamma che leggeva L'uomo qualunque, di Giannini, alla luce del
sole e mai ha mostrato cedimenti o accondiscendenze che potessero mostrare
debolezze alcune di carattere e di temperamento. Dico questo e lo sostengo
con un esempio che fa luce sulla sua personalità: una sera del 1943
lo zio Nello era tornato a casa con delle sigarette acquistate al mercato
nero: mio padre, accortosene, ha protestato ed ha deciso, immediatamente,
di sciogliere la società e di andarsene. Valutate le proprietà,
sono state fatte le parti: allo zio sono toccati gli immobili, ed al babbo
una liquidazione di L. 400.000. Una discreta somma, per quei tempi, che
gli hanno permesso di iniziare una nuova attività: quella di commerciante
di turaccioli, prodotto naturale, autarchico, non soggetto al doppio mercato.
Si è quindi trasferito in via Fornacelle, con la mamma e me, in
un appartamento preso in affitto. Avendo una mano parzialmente compromessa,
e quindi inabile al lavoro, era stato riformato alle armi. Per il suo lavoro,
girava tutti i mercati della provincia e conosceva, quindi, molta gente.
Tra i suoi amici più cari annoverava don
Pessina, il parroco ucciso dai partigiani comunisti; questa amicizia gli
è forse costata, ma non credo che sia stata la causa della sua morte.
Mi ha raccontato don Neviani che quando fu recuperata la mandria di cavalli
rastrellata dai tedeschi e lasciata sulle rive del Po, don Pessina voleva
(come si doveva per legge) riconsegnarla al Comando Alleato, mentre il
capo partigiano (* *) era di parere contrario. In quell'occasione, a mio
padre era stato chiesto di vendere alcuni cavalli, ma si era rifiutato,
in primo luogo perché non frequentava mercati-bestiame, e poi perché
non si trovava d'accordo con chi intendeva disobbedire alle leggi vigenti.
Così era il suo carattere, e così me lo hanno descritto coloro
che, in paese, lo hanno conosciuto e frequentato. Un giorno, tornando dal
mercato di Modena, aveva portato a casa due, dico due pacchetti di sigarette
americane, da regalare ai partigiani del Toscanino, cugino di mia madre;
la sera stessa sono arrivati a casa 5-6 partigiani mascherati e ci hanno
perquisito la casa, convinti che nascondessimo quintali di sigarette! E
la mamma a sgolarsi per dire che era stato un pensierino per loro, non
certo la punta di un ipotetico iceberg di tabacco!
Questa era l'atmosfera di quei terribili mesi; in
ogni modo, la mia famiglia ha passato indenne il 25 aprile; il papà
continuava il suo lavoro e mai ha pensato di andarsene. Non aveva alcun
motivo, non essendo stato militare, non avendo partecipato attivamente
alla vita politica del paese. La sera del 5 gennaio 1946, era uscito per
andare alla cooperativa poco distante: voleva comperare dei cioccolatini
da mettere nella calzetta; il giorno dopo, la "Befana", voleva
vedere la felicità negli occhi del suo bambino. Ma non è
più tornato a casa. Testimoni hanno raccontato che ha fatto una
partita a carte, poi, verso le 22 ha inforcato la bicicletta per fare ritorno.
Un conoscente, certo Leo Fantini, meccanico di biciclette, ha raccontato
di averlo incrociato e di essersi stupito perché, contrariamente
al solito (mio padre era un uomo calmo, tranquillo) pedalava in modo concitato,
quasi volesse scappare da qualche pericolo. Il Fantini, che aveva montato
un fanale molto luminoso - Radius - con lo stesso falciava la strada, e,
all'altezza della casa di Donnino Menozzi, dopo aver visto il papà
sfrecciare a gran velocità, ha notato due figuri, uno alto e sottile
ed un altro piccoletto che sembravano rincorrerlo. Pochi giorni dopo la
scomparsa di mio padre, il Fantini si è recato in tabaccheria dallo
zio Nello, il quale, avendolo sottoposto a stringente interrogatorio, ha
avuto da lui piena confessione: ha saputo, cioè, i nomi dei due
inseguitori, che sono poi stati i suoi assassini. Gente del luogo.
La stessa sera del 5 gennaio, in casa di un certo
(* *) partigiano, si era tenuta una festa: lo stesso (* *) aveva chiesto
in prestito allo zio Nello il giradischi, prontamente dato; durante la
festa, intorno alle 9,45, due uomini si sono "assentati" per
circa due ore, rientrando intorno alle 23. Questo è stato testimoniato
da più persone: e, che strano, si trattava proprio dei due inseguitori
di mio padre, entrambi emigrati all’estero.
Quella scomparsa ha fatto parlare tutto il paese;
stupire, perché Manfredi non era un uomo compromesso col regime
e nessuno si spiegava un così tardo "regolamento di conti".
Di più, Anno aveva aiutato tante persone, era benvoluto... nessuno
si spiegava tanta atrocità.
Mio zio arciprete ha cercato di sapere di più;
si è mosso, ha chiesto ed è arrivato molto vicino alla verità:
ha intanto appurato il luogo della "sepoltura"; si tratta di
un podere al Cantone, in una zona di confine tra Carpi e Correggio, dove
probabilmente sono stati portati altri poveri corpi.
Nel 1990 (* *) ha ammesso con me che in tutte le
famiglie ci sono delle pecore nere, e che la morte di mio padre è
stata un macroscopico errore, dovuto a rozza manovalanza. Certo questo
non basta a tacitare l'angoscia che ancora oggi è dentro di me.
Nel 1946 lo zio Nello è stato minacciato: davanti alla porta del
negozio, una mattina, ha trovato fascine, fiammiferi e carta, un esplicito
avviso. Terrorizzato, si è trasferito a Varese, dove ancora vive.
Non si poteva neanche fare ricerche, in quel periodo. Bisognava solo tacere.
Per anni abbiamo, mia madre ed io, sopportato privazioni e miseria;
mia madre è rimasta sola a 25 anni con un bimbo di 5 da crescere
e far studiare. Non avevamo più nulla: neanche la pensione,
perché mio padre risultava scomparso, non morto. E così il
danno economico si aggiungeva a quello, ben più grave, della nostra
desolata solitudine. Ho patito, e patisco ancora, del mio essere orfano.
Mi manca mio padre, e la ferita non si è chiusa dopo 50 anni. E
mi ferisce il modo.
Tante voci, in questi decenni, mi hanno segnalato
nomi, fatti, movimenti... So quasi tutto; i nomi degli assassini mi sono
noti; quando ho cercato di avvicinarli non mi hanno voluto neanche ricevere.
La verità è stata sepolta con mio padre. E con centinaia
di altri, alcuni dei quali sicuramente vittime del rancore personale, dell'odio,
dell'invidia, del risentimento... Per costoro, non vittime di guerra, si
dovrebbe aprire un capitolo a parte. Io, comunque, non chiedo nulla;
solo vorrei che mi fosse restituito ciò che resta di mio padre,
perché possa dargli una sepoltura cristiana. Hanno sepolto da uomini
anche dei criminali incalliti, degli assassini che hanno commesso genocidi:
perché nascondere il cadavere di un civile, di un uomo che vendeva
turaccioli e che pensava solo alla sua famiglia? So di misteriose quanto
infami connivenze, politiche ed economiche; perché dietro, quasi
sempre, c'è molto, molto denaro. Miliardi. Miliardi che tappano
bocche, che sanano lacerazioni, che compensano silenzi...
Se questa è la giustizia... nata dalla
Resistenza,... mi scusi, ma che squallore! Io spero, spero che qualcuno
che sa, prima di lasciare questa terra, abbia un momento di coscienza e
si decida a raccontare, magari in modo anonimo, dove sono i corpi di quegli
uomini, e sono tanti, che nessuno può piangere, ma che la memoria
collettiva non ha dimenticato. Questo incontro, e la speranza che ci sia
ancora chi non è venduto al potere, ne sono una prova.»
Marisa Bigi, classe 1937
«Carmen Miari, classe 1921, era sorella di
mia madre. Sposata giovanissima con Massimo Beltrami, non aveva col marito
un rapporto sereno. Ricordo che la sera che ha seguito la mia Cresima (aprile
1943) la zia si è rifugiata in casa nostra dopo essere scappata
dal marito, che l'aveva picchiata selvaggiamente; non voleva più
tornare con lui, ma dopo un paio di giorni Beltrami è venuto a
riprenderla. Oltre ad essere violento, aveva anche l'amante: così
si diceva; certo è che i due si sono separati, quando anche Carmen
si è innamorata ed è andata a convivere con un milite della
Guardia Nazionale Repubblicana. Erano gli ultimi mesi di guerra; la zia
parlava spesso di armi che il nuovo compagno della figlia teneva in cantina...
e lei non era d'accordo... sembra anche che raccontasse ai partigiani di
questo fatto...
Ma sa, i ricordi sono quelli di una bambina, e quindi
molto confusi. Carmen abitava a Rivalta: il 25 o 26 aprile è venuta
a Reggio: non ha più fatto ritorno. So che è stata arrestata
e che doveva essere portata ai «Servi»; è stata uccisa
(in via Castelli?) insieme ad altre 7-8 persone e mia madre ha visto il
cadavere nel cimitero Monumentale di Reggio.
La nonna raccontava che era venuta a Reggio per
consegnare ai partigiani quelle armi che aveva visto in cantina. Per questo
ed altri motivi, la mia famiglia, che era cattolica praticante, e che era
lontana da ogni violenza, ha vissuto mesi, anni di paura.
In casa nostra non ci sono mai state tessere di
appartenenza politica: eravamo contadini, poveri, ma tranquilli e lavoratori;
abitavamo a Pieve Rossa di Bagnolo, in una zona molto "calda".
Ricordo che, dopo la Liberazione, c'erano degli esaltati che ci facevano
paura perché si andava a messa. Quando c'erano le processioni della
Madonna Pellegrina, che seguivamo da una frazione all'altra, bisognava
stare in gruppi, sia all'andata che al ritorno, perché avveniva
spesso che gli estremisti comunisti minacciassero i solitari e... non si
limitassero alle parole! Questo era il momento, che è durato un
bel po', e che ci faceva vivere in uno stato di grande ansia e timore.
Prima timore dei fascisti, poi dei comunisti! E, negli ultimi mesi di guerra,
paura di tutti e due; una mattina del marzo 1945, siamo stati svegliati
da 15 partigiani che avevano circondato la nostra casa, in via Beviera
n. 46: sono entrati, e, dopo aver mangiato e bevuto, sono andati con le
mitragliette sul granaio, aspettando che passassero i tedeschi: per fortuna
questo non è avvenuto, perché di sicuro avremmo avuto la
casa bruciata e forse avremmo perso anche la vita! Noi eravamo tutti in
cantina, nascosti sotto il serbatoio dell'acqua: pregavamo piano, terrorizzati.
Ma la Madonna ci ha aiutati. In campagna, i contadini cattolici come
noi hanno temuto più i partigiani dei fascisti: le spiego il
perché. I militi fascisti venivano da noi solo per controllare,
durante la trebbiatura, che il grano raccolto andasse all'ammasso. E poi,
durante la vendemmia, per il vino: ma devo dire che non ci hanno mai messo
in condizioni di temere per la vita. Fatti i loro controlli, se ne andavano
con le loro motociclette senza offendere o prendere niente. Diverso
era il comportamento degli altri: probabilmente sarà stata la causa
per cui combattevano, ma i modi... quello di mettere sempre a repentaglio
la vita di civili, di bimbi, di donne che chiedevano solo di essere lasciati
in pace...
Guardi, le voglio raccontare un altro episodio,
significativo a questo proposito. Nell'autunno 1944 alcuni contadini delle
zone intorno a casa mia, portavano a Reggio il vino (dentro le botti) da
consegnare all'ammasso. Era l'alba, e noi sentivamo i carri passare trascinati
da cavalli: ad un certo punto sono sbucati dei partigiani - sembrava dal
nulla - e, sparando, hanno bucato le botti, facendo fuoriuscire tutto il
vino che si è disperso a terra. Dopo questo atto, si sono dati
precipitosamente alla fuga. Due ore dopo sono arrivate due camionette tedesche:
i militi volevano sapere da dove erano sbucati i partigiani; i conducenti
dei quattro carri, allora, hanno sostenuto che provenivano dai campi.
Se per caso avessero detto che sbucavano dal retro di una casa, la stessa
sarebbe stata bruciata, ed i legittimi proprietari o uccisi o portati in
carcere! In ogni modo, in seguito a questa "bravata", sono stati
prelevati dal carcere di Reggio 8 prigionieri, portati nel cimitero di
S. Michele di Bagnolo, ed ivi uccisi. Noi si era terrorizzati; non mi stancherò
mai di ripeterlo. Siamo passati da un regime di paura ad uno di terrore.
E questo è durato molti mesi, per anni; dopo l'attentato a Togliatti
(14/6/48), i comunisti non ci lasciavano lavorare nei campi, perché
c'era lo "sciopero obbligatorio". Allora noi ci alzavamo alle
3 o alle 4 per lavorare col buio, ma sempre con la paura che ci scoprissero.
Chi erano questi "guardiani"? Li conoscevamo tutti, perché
era gente del posto; molti di loro, i più arroganti e prepotenti
li conoscevamo per essere stati, durante il regime, i più arroganti
anche allora... Si erano cambiati, alla svelta, la camicia, da nera
a rossa... ma il "garbo" era lo stesso! Ricordo che questo era
il cruccio del mio povero padre, che non si dava pace per non poter svolgere
il suo lavoro nei campi; diceva: "...Mo guarda lè... fin
a ier paseven cun al gagliardat... adassa ia van cul la camisa ròsa...".
Sì, la nostra è stata una terra che
ha visto molte ingiustizie e molte assurdità: ma è la guerra
civile che porta gli uomini a commettere dei fatti senza senso ed a perdere
ogni umanità. Tanto è stato detto, ma tantissimo è
rimasto nell'ombra, nella memoria contadina che spesso è riservata,
timida, caratterizzata dal pudore che contraddistingue i semplici ed i
poveri. Ma tacere non vuol dire aver dimenticato; tacere non significa
non capire... Anzi, di questi tempi, a me, umilmente, pare che quelli che
parlano di più spesso abbaiano alla luna...»
Dott. Filippo Silvestro, classe 1940
«Pur essendo di origini meridionali, la mia
famiglia è arrivata a Reggio Emilia nel 1939 proveniente da Pola,
ove mio padre, Vincenzo, era capo-sarto militare, nel corpo dei Bersaglieri.
Quando il reparto si trasferisce, oltre alla mia famiglia, viene a Reggio
Emilia anche una sorella del papà, Pietrina, sposata con Salvatore
Ballarino, ed il loro unico figlio, Angelo. E', la mia, da sempre, una
famiglia che ha tradizioni militari; d'altra parte, nel sud, per sopravvivere,
come tutti sanno, l'esercito è stato una delle poche possibilità.
E così, un poco per consuetudine, ma soprattutto perché obbligati
dalle necessità, sia mio padre che mio cugino portavano la divisa:
Angelo, nel 1943, si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana
e quindi comandato nella Compagnia "Ordine Pubblico", situata
in corso Cairoli, ove attualmente ha sede il comando dei Carabinieri. Era
un ragazzone allegro, pieno di voglia di vivere, anche un poco ingenuo:
almeno questo emerge dai ricordi di chi lo ha conosciuto. Abitava in via
Poli, con la madre ed il padre, quando durante lo spezzonamento del 14
maggio 1944 lo zio Salvatore è rimasto ucciso. Da quel momento,
la vedova Ballarino ha riversato tutto il suo amore, diventato quasi ossessivo,
sull'unico figlio, Angelo appunto. Molto confusamente, ma ricordo di cene
insieme, perché poi mio padre cercava di fare le veci del cognato;
ricordo che quando veniva da noi, mi prendeva a cavalluccio sulle spalle
e mi faceva giocare: ricordo, e questo più chiaro, il suo allegro
scampanellare, il salire le scale e, appena entrato, il calore della sua
risata argentina quando io, curiosamente, cercavo nelle sue tasche la stecca
di liquirizia che egli vi nascondeva!
Il giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945,
in città si svolgeva una sfilata; doveva essere un giorno di
festa per la fine della guerra, ed è stato invece l'inizio di una
mattanza che ancor oggi i reggiani ricordano con orrore. Una mattanza che
è durata mesi, anni. Mio padre, Angelo e la signora Giordano,
capo-calzolaio dei Bersaglieri alla caserma «Cialdini», collega
del papà, erano in via Emilia per partecipare, come tutti, alla
sfilata insieme alla popolazione festosa; dalla folla si leva una voce
stridula, isterica, lacerante che grida: "...Quello è il fascista
Ballarino...!" Alcuni lupi inferociti da quelle parole sono piombati
addosso ad Angelo, e, malmenandolo brutalmente, l'hanno condotto alla sede
del comando partigiano, presso l'attuale caserma "Zucchi".
Immediatamente mio padre vi si è recato,
cercando di parlare con i comandanti, per spiegare l'incredibile equivoco
che aveva condotto il nipote al comando; un equivoco che si chiamava omonimìa;
infatti, a Reggio aveva operato - e con mano pesante - il Colonnello Anselmo
Ballarino, Comandante Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana,
che però, con Angelo, non aveva nulla in comune, salvo il cognome...
Quel giorno sono stati arrestati centinaia di uomini:
in caserma c'era ressa, caos, addirittura... mio padre si è recato
allora alla "Zucchi", per vedere di chiedere aiuto a qualche
graduato, per spiegargli l'assurdo arresto, ma, purtroppo, nessuno l'ha
potuto - o voluto - aiutare. La mattina seguente, prestissimo, di nuovo
al comando partigiano; sorpresa: Angelo Ballarino, insieme a decine di
altri uomini, era stato caricato su di un camion, la sera precedente, e
portato ad ignota destinazione. Incredibile. Ho poi saputo che l'"ignota
destinazione" erano le fosse comuni della bassa reggiana, previo un
giretto alle "case della morte" di ben triste conoscenza, oppure
qualche sperduta concimaia, dove spesso i poveri prigionieri venivano sepolti
vivi...
Io, della giustizia partigiana, ho quel ricordo
qui. Mia zia, che in un anno ha perso marito e figlio, si è
ammalata di una profonda depressione, mai guarita, che l'ha accompagnata
alla tomba. La mia famiglia sconvolta. Io ancora - e sono passati 52 anni
- domando ai reggiani: dov'è il cadavere di mio cugino Angelo Ballarino
la cui unica colpa è stata quella di portare quel cognome? Attendo
risposta, ben sapendo che non verrà mai. Gli assassini sanno il
perché. Ma non solo loro.»
LE TESTIMONIANZE TRATTE DAL LIBRO E RIPORTATE NEL NOSTRO
ARCHIVIO SONO STATE NECESSARIAMENTE SUDDIVISE IN DUE PARTI.
IN QUESTA PAGINA TROVATE LA
PRIMA PARTE
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